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Del monoteismo e oltre

Per una religiosità libera da condizionamenti



Pagina pubblicata il 25 aprile 2006

Indice


Introduzione

In questi tempi che già sono stati definiti postmoderni, la religione sta ritornando ad assumere un ruolo centrale nella vita privata e pubblica delle persone. Gli appelli del papa e quelli dei religiosi mussulmani contro il secolarismo ed il relativismo non sono grida di dolore per la decadenza della religione, ma al contrario chiamate alla riscossa, che sempre più trovano ascolto in un mondo che sembra  irreligioso soltanto se ci si ferma ad un esame superficiale.

La religione sta tornando ad essere un elemento importante non soltanto per gli individui ma anche per la vita collettiva e la politica in generale. Il presidente degli Stati Uniti Bush è stato rieletto alla fine del 2004 chiamando a raccolta l'elettorato che si ispira al protestantesimo evangelico e forma la base della destra religiosa americana. Quello che abbiamo scoperto nel 2004 è che l'America laica e  liberale è oggi in minoranza rispetto a quella che si ispira ai valori della religiosità evangelica, compreso quello che viene chiamato fondamentalismo cristiano.

In Italia assistiamo ad una potente offensiva dell'episcopato cattolico per la ripresa dell'influenza di cui un tempo godeva sulla nostra repubblica. Sono quotidiani gli interventi in merito a questioni soprattutto legislative: dalla martellante campagna a favore della legge sulla procreazione assistita alle pressanti richieste di verifica della legge 194 sull'interruzione di gravidanza, ai pareri quotidianamente espressi su questioni politiche italiane, la Conferenza Episcopale Italiana tramite il suo presidente cardinale Ruini è passata all'attacco per la riconquista dello Stato italiano.

La diffusione dei conflitti su base religiosa nel mondo è in continua crescita. Sebbene le autorità religiose oggi si guardino dal sostenerli esplicitamente, non mancano tuttavia i personaggi che pur non avendo un ruolo religioso formale si appellano alla divinità per sostenere le loro battaglie, primi tra tutti gli estremisti mussulmani che giustificano il terrorismo in nome di Dio.

Questo ritorno alla religione, per quanto sia improprio nei modi in cui si manifesta nella politica, ha tuttavia motivi di fondo serissimi anche sul piano propriamente dello spirito.

Il crollo del sistema comunista sovietico, seguito dalla conversione della Cina al capitalismo dal punto di vista economico, sia pure avvenuta senza cambiare il nome e l'organizzazione del suo sistema politico, ha segnato il trionfo di un unico sistema economico e sociale nel mondo intero. Questo sistema è basato sul capitalismo finanziario (non più quello produttivo tradizionale) e sul consumismo di massa. La versione classica del capitalismo trovava, secondo Weber, le sue radici nell'etica cristiana protestante di stampo calvinista, per la quale il successo economico è segno del favore divino. La conversione al consumismo, necessaria per risolvere il problema della sovrapproduzione individuato già da Marx, seguita dal prevalere della componente finanziaria, quindi del puro gioco speculativo, su quella produttiva, che richiede impegno, organizzazione e lungimiranza, ha fatto nascere un contrasto stridente tra l'etica del lavoro che soggiaceva originariamente al sistema e l'amoralità assoluta oggi predominante.

Tutti percepiamo la crisi in cui versa l'umanità intera, dopo la perdita della concezione positivistica che aveva dominato fino al tempo che Hobsbawm nel Secolo Breve definisce "età dell'oro", gli anni che vanno dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla crisi economica degli anni '70 del secolo scorso. Il capitalismo finanziario non ha alcun fondamento etico di riferimento, ma si impone semplicemente per la sua spietata efficacia nel breve periodo. Ma il meccanismo consumistico che ne cosituisce la base porta alla dissipazione sistematica delle risorse naturali, ormai giunta ad un livello critico.

D'altro canto, i cittadini sono sommersi di messaggi ed informazioni di cui ormai riconoscono più o meno esplicitamente la strumentalità e spesso la pura e semplice falsità. Crollati gli ideali laici, come il comunismo (che pure aveva un versante millenaristico), la risposta che molti trovano al vuoto ideale ed al decadimento materiale in cui viviamo è la religiosità tradizionale, come accadde in circostanze per molti aspetti paragonabili al tempo della decadenza dell'Impero Romano.

Ci troviamo così un cristiano rinato (reborn Christian) come George Bush alla presidenza dell'unica superpotenza, in cui hanno base la maggior parte delle società transnazionali che diffondono l'economia consumistica di rapina nel mondo. La religione, in cui gli individui cercano rifugio da un mondo sempre più caotico e privo di senso, torna ad essere instrumentum regni, come per Costantino il Grande. Per somma ironia il tentativo di ritrovare una base alla propria esistenza è a sua volta utilizzato da una consorteria dominante spietata per sostenere il proprio potere. Nei paesi mussulmani accade la medesima cosa: di fronte ad una crisi sociale apparentemente irreparabile gli estremisti religiosi hanno buon gioco a portare le masse dalla propria parte, nella guerra santa all'Occidente ritenuto ateo e materialista. E' talmente ateo e materialista, l'Occidente, da essere guidato da un cristiano rinato i cui meccanismi mentali non sono tanto diversi da quelli degli estremisti mussulmani.

Questo scritto non è però un nuovo capitolo della serie sul Nuovo Medioevo, ma un'indagine filosofica sul monoteismo che parte dai principi fondamentali per individuare il vero ruolo di tale concezione nella civiltà attuale e indicare una possibile via d'uscita dalla sua crisi, che copre tutti gli aspetti dell'esistenza umana. Anche troppi parlano in nome della divinità, occorre ripartire da capo per comprendere di che cosa stiamo parlando. Faremo dunque una sintesi dei principali argomenti sul tema del monoteismo, e delle alternative ad esso. Esiste infatti la convinzione diffusa, frutto di secoli di propaganda religiosa, che il monoteismo sia superiore alle altre concezioni religiose. Vediamo dunque di analizzarlo per capire se è vero.

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Definizione

Prima di parlare del monoteismo dobbiamo definirlo, per evitare che il nostro discorso cada fin dall'inizio nella confusione linguistica che è uno dei principali motivi di errore in filosofia.

Il termine monoteismo di per sé, etimologicamente, indica la credenza in un unico dio, in quanto contrapposta all'ateismo, che non ammette nessun dio, ed al politeismo, che ammette una pluralità di dei. Il monoteismo di cui andremo a trattare non è però inteso semplicemente in questo modo. Qualunque discussione sulla divinità deve infatti riferirsi ad una concezione definita di essa. Non è sufficiente affermare la credenza in un solo dio, occorre che egli sia definito in modo che la credenza abbia un contenuto e non sia una semplice affermazione di principio, il cui vuoto si può riempire a proprio piacimento in ciascuna occasione.

Il monoteismo di cui qui parliamo è quello giudaico-cristiano-mussulmano, data la sua strabordante importanza nel mondo. Suggerisco di chiamarlo monoteismo occidentale, per differenziarlo dalle concezioni indiane ed orientali in generale, a cui accenneremo più avanti.

Non dobbiamo scordare che le tre religioni citate hanno salde radici comuni, benché le differenze siano importanti ed i conflitti dovuti all'appartenenza all'una piuttosto che all'altra abbiano segnato la storia dell'umanità con guerre e stragi. Vorrei sottolineare che le autorità religiose di tutt'e tre le fedi oggi negano la fondatezza dei conflitti tra di esse e si esprimono costantemente a favore del dialogo, anche se in ciascun campo vi sono estremisti che propagandano l'odio contro gli appartenenti agli altri due, e nel passato vi sono stati incitamenti all'odio ed al conflitto anche da parte di alte autorità religiose.

Non trascureremo le differenze, ma cominciamo col definire i punti salienti del monoteismo occidentale.

Esso consiste nel credere, in merito alla divinità, che:

  1. esiste uno ed un solo Dio;
  2. egli è il creatore del mondo in cui viviamo,
  3. ma non ne fa parte (trascendenza);
  4. è onnipotente e onnisciente,
  5. eterno,
  6. perfetto;
  7. ha una volontà;
  8. è benevolente e misericordioso,
  9. ma è anche giusto e punisce i malvagi.
Inoltre i monoteisti credono (tranne gli ebrei, le cui concezioni sono molto più circoscritte su questi argomenti) che:
  1. gli esseri umani, ed essi soltanto tra i viventi, hanno un'anima immortale;
  2. dopo la morte l'anima si separa dal corpo e va a vivere altrove;
  3. alcuni finiscono per sempre in un luogo piacevole chiamato Paradiso, altri in uno spiacevole chiamato Inferno;
  4. la sorte di ciascun'anima dipende dalle azioni buone o cattive compiute in vita,
  5. ma per essere salvati occorre la grazia divina (anche se le concezioni divergono su questo tema).
Nel seguito useremo Dio (con la maiuscola) per indicare la divinità dei monoteisti, differenziandola dal termine generico dio=divinità in senso generale.


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Sull'esistenza di Dio e le difficoltà che ne derivano 

Il tema di questo paragrafo è la concezione di dio che hanno i monoteisti. L'eterna domanda non sarà qui "dio esiste?" ma "Dio esiste?",  dove la maiuscola ha un peso importante. Infatti la prima domanda ha poco senso: non si può parlare dell'esistenza di qualcosa o qualcuno che non abbiamo definito. Qui si parla del Dio dei monoteisti, come l'abbiamo definito sopra.

La prova ontologica

La prima osservazione si lega alla confutazione di una delle prove tradizionali dell'esistenza di Dio, la cosiddetta prova ontologica, inventata dal filosofo medievale Anselmo d'Aosta (XI secolo), secondo il quale la perfezione di Dio include necessariamente l'esistenza. Infatti, se concepissimo un essere uguale in tutte le proprietà a Dio ma non esistente, esso sarebbe inferiore ad un essere uguale ma che in più fosse esistente. Ora, siccome Dio è per definizione l'essere che ha tutte le qualità in misura somma, deve necessariamente avere l'esistenza. L'argomento è ingegnoso ma sbagliato, perché l'esistenza non è un predicato ma una quantificazione. Dire "X esiste" non significa niente se non definiamo X: una volta che X è definito, allora possiamo occuparci della sua eventuale esistenza. L'esistenza non modifica il concetto di X, ma semplicemente significa che si può trovare X in un certo ambito di realtà.

Come Kant nella Critica della ragion pura, facciamo un esempio basato sul denaro. Posso definire la moneta da 2 euro e quella da 3 euro; in base alla definizione, la moneta da 3 vale più della moneta da 2. Però non so se esistano: se vado a verificare, scopro che la moneta da 2 esiste, quella da 3 no. La verifica non ha niente a che vedere con il concetto di moneta da 2 o da 3, è basata, nel nostro caso, sull'evidenza empirica. Chi conosce la logica non ha bisogno di spiegazioni, perché sa che l'esistenza non è un predicato, "X esiste" non è un'espressione logica compiuta: qualunque proposizione di esistenza ha la forma "esiste X tale che..." a cui seguono le proprietà che definiscono X.

Eternità e creazione

Ma la definizione stessa di Dio data più sopra è in sé problematica.

La proprietà dell'eternità (5) è in conflitto con il ruolo di creatore (2), tanto per cominciare. Un essere eterno è fuori dal tempo, non è soggetto a mutamento; ma l'atto della creazione, com'è concepito dai monoteisti occidentali, è un atto collocato nel tempo. Ora, l'autore che compie l'atto si congiunge all'oggetto nell'istante temporale dell'azione, il che lo colloca inevitabilmente nel tempo. Agostino sosteneva che non ci si deve chiedere che cosa facesse Dio prima di creare il mondo, perché il tempo fu creato col mondo stesso. Ma se anche ammettessimo che il tempo possa avere un istante iniziale ed estendersi indefinitamente in una sola direzione, questo non ci salverebbe dalla contraddizione. Infatti l'istante zero della creazione è diverso da ogni altro istante: è l'istante dell'atto creativo nel suo compimento, diverso da ogni istante successivo, in cui l'atto risulta compiuto. Quindi Dio ha almeno due stati distinti: nell'atto di creare e dopo aver creato, e così almeno per questo si colloca nel tempo. E' sufficiente un unico mutamento per violare il principio dell'eternità.

Per evitare la contraddizione si dovrebbe ammettere che la creazione è continuamente in atto e non si colloca in un momento del tempo, come fa notare il filosofo buddista Shantideva. Ma la concezione del monoteismo parla chiaramente di una creazione collocata nel tempo e non di un processo continuo. Quest'ultimo era invece accolto dai neoplatonici, che parlavano di "emanazione" anziché di creazione. L'emanazione, però, crea altre difficoltà, perché non salva la volontà (7) né le altre proprietà personali di Dio. Un dio che produce il mondo per emanazione non crea volontariamente per sua scelta, ma perché emanare la realtà è parte della sua stessa natura. Inoltre ha poco senso parlare di sua bontà e misericordia, piuttosto che giustizia. Non per nulla il neoplatonismo risulta inconciliabile col monoteismo occidentale, sebbene tracce di esso compaiano nei luoghi più inaspettati. L'introduzione del vangelo secondo Giovanni, ad esempio, suona fortemente neoplatonica: quando afferma che "all'inizio era il logos, ed il logos era presso Dio ed il logos era Dio", sembra riferirsi al primo gradino dell'emanazione, costituito appunto dal logos, la manifestazione di Dio come ragione discorsiva.

Restando sul tema della creazione, notiamo che una delle prove classiche dell'esistenza di Dio è quella della causa prima: l'universo che conosciamo deve avere una causa prima, il creatore, per evitare un regresso all'infinito. Ma questa prova va incontro ad almeno due difficoltà: si può applicare la categoria di causa soltanto ad oggetti empirici, applicarla ad un ente trascendente è inammissibile (obiezione di Kant); inoltre il regresso all'infinito delle cause non comporta contraddizione. 

Noi ci serviamo della categoria di causa per interpretare il mondo fenomenico, collegando gli eventi empirici tra loro. La valida applicazione della categoria richiede che si riferisca ad oggetti sperimentabili. Dato che Dio non fa parte del mondo empirico (3), non possiamo assumerlo come causa di alcun fenomeno.

Possiamo tentare di dire che Dio è l'insieme totale delle forze naturali che producono il mondo fenomenico. Ma allora non parliamo di Dio, bensì di un dio immanente coincidente con la natura - una questione di nomi, come dice Shantideva, abbiamo inventato un nuovo nome per la natura, ma non abbiamo trovato Dio.

Ritenere che una catena causale debba avere un inizio, inoltre, è una petizione di principio, non deriva da necessità logica. Questa posizione si origina dalla negazione dell'infinito attuale propria di una parte della tradizione filosofica occidentale. I buddisti, ad esempio, non vi trovano alcuna difficoltà. I matematici usano da sempre concetti come la retta, che non ha inizio né fine. Certamente, ci sono casi in cui il regresso all'infinito non è accettabile, ma a ben guardare sono quei casi in cui nemmeno il primo passo è valido. Una volta accettato il primo passo e la regola del successivo, l'infinito si attua di fronte a noi senza contraddizione. Consideriamo i numeri relativi: una volta accettata l'esistenza di -1 come predecessore dello zero, si apre l'infinito dei numeri negativi: lo zero ha infiniti predecessori. Si tratta di un'applicazione del principio di induzione matematica esplicitato da Peano per assiomatizzare i numeri interi. Esso consente di costruire un insieme infinito a partire da un primo elemento e da una regola applicabile iterativamente. Per quanto riguarda la sequenza causale, è come dire che il presente è il punto di partenza e le sue cause dirette il predecessore. Non vi è nulla di illogico nel dire che ciascun predecessore ne ha un altro a sua volta, sebbene questo non dimostri che lo abbia davvero dal punto di vista empirico.

Non potremo mai avere evidenza empirica in merito all'origine dell'universo. La teoria del Big Bang non deve ingannarci: essa riguarda l'inizio di questo particolare universo, ma non implica che il Big Bang sia l'origine del Tutto: si tratta soltanto del punto più antico a cui si possa risalire con l'indagine fisica. La maggior parte delle teorie prevede che ci sia stato altro, in precedenza; in ogni caso si tratta di un campo di indagine aperto.

L'ordine delle cose

Un argomento ingenuo ma molto spesso addotto dai fedeli delle diverse religioni è quello dell'ordine naturale. Si dice che il mondo è troppo ben organizzato ed ordinato per non essere il prodotto di un'intelligenza creatrice. Se guardiamo bene, però, è anche possibile vedere il mondo come un caos sede di ogni bruttura e di ogni male... sono considerazioni soggettive che non provano nulla. E' il nostro intelletto che per sua natura cerca l'ordine e lo vede in ogni luogo, allo scopo di dare un'interpretazione del mondo su cui basare l'azione: notiamo le regolarità e scartiamo le irregolarità perché questo è un buon metodo operativo. Ma le regolarità che vediamo derivano dall'applicazione delle nostre facoltà intellettive al mondo, non sono intrinseche al mondo stesso. E' chiaro che il mondo deve essere tale da consentire l'efficace applicazione delle nostre regole, ma sarebbe stupefacente il contrario, visto che noi stessi siamo parte di questo mondo.

Pensiamo poi all'imperfezione, anziché alla perfezione, di noi stessi: i nostri corpi sono costruiti in modo casuale ed incongruo, dal fatto che i canali dell'aria e del cibo si incrociano in gola causando il rischio del soffocamento da cibo alla struttura fragile della nostra colonna vertebrale, che darebbe meno problemi se non stessimo eretti ma andassimo a quattro gambe come tutti i mammiferi di buon senso, all'esistenza di organi inutili come l'appendice o i capezzoli dei maschi. Ci sono molte prove che non siamo il risultato di una concezione razionale complessiva ma di un processo complicato e privo di un filo logico coerente.

L'origine del male

Un potente argomento contro l'esistenza di Dio è che nel mondo vi sia il male. Questo è assai difficile da spiegare se si tratta di un mondo creato da un dio benevolente (8) ed onnipotente (4). La sofferenza di esseri innocenti non sembra conciliabile con l'esistenza di Dio, buono e capace di fare ogni cosa. Perché non protegge almeno gli innocenti? Possiamo infatti concepire che taluni soffrano per punizione (9), ma non si comprende come possa Dio ammettere casi estremi che possono andare dalla morte di un bambino per cancro ai crimini dei nazisti. Questo è chiamato il problema della teodicea, e rappresenta una difficoltà gravissima per il monoteismo.

La giustificazione monoteista dell'esistenza del male è che esso sia necessario per darci la libertà: per impedirci di compiere il male Dio dovrebbe togliercela, ma non lo fa perché preferisce lasciarci liberi. Ma i problemi qui si allargano anziché semplificarsi. Intanto, lasciare la libertà di commettere anche il male è un conto, permettere la sofferenza degli innocenti senza intervenire è un altro, tanto più che la maggioranza dei monoteisti crede che possano avvenire i miracoli, cioè gli interventi divini nel mondo anche contro il normale procedere dei fenomeni. In molti casi la sofferenza degli innocenti è dovuta a disastri naturali: va bene la libertà dell'uomo, ma perché i terremoti? Hanno diritto alla libertà anch'essi?

Affermare che esiste un principio maligno che agisce in senso opposto a Dio equivale a costruire non un monoteismo ma un dualismo ancor più contraddittorio. Intanto, equivarrebbe a negare senza mezzi termini l'onnipotenza e la perfezione di Dio. Se possiamo capire in qualche modo che Dio lasci a ciascuno la possibilità di agire liberamente, quindi anche male, il fatto che lasci agire un essere maligno ma in qualche modo eterno egli stesso, che ha per scopo la diffusione del male nell'universo, è assolutamente inconcepibile, a meno che quell'essere non sia pari a lui. Ma due esseri onnipotenti non possono esistere simultaneamente, perché se non altro si limiterebbero a vicenda. Il Diavolo non può quindi esistere, o se esiste è già incatenato negli inferi... e allora è come se non esistesse.

Che Dio non intervenga per lasciarci la libertà è problematico anche per altri aspetti. Infatti molti fedeli credono, e la chiesa cattolica sostiene e considera indispensabile, ad esempio per le cause dei santi, che avvengano miracoli. Ma perché a volte avvengono ed a volte no? Un intervento avulso dal normale ordine delle cose, il deus ex machina, può risolvere una situazione senza violare il principio generale della libertà. Ma nella maggior parte dei casi non avviene. I miracoli rimangono per consenso di tutti eventi molto rari, anche per chi crede in essi. Ma la loro rarità contraddice la benevolenza divina: perché Dio la maggior parte delle volte non interviene, ma in qualche caso lo fa? Questo è il comportamento che ci si attende da un dio del politeismo, propenso al capriccio, non dal Dio perfetto!

Onniscienza e determinismo

Recentemente il papa ha dichiarato in modo inequivocabile che Dio conosce ogni dettaglio della nostra vita fin dal momento del nostro concepimento. L'argomento serviva a proposito della discussione sulla veste giuridica dell'embrione. Ma Benedetto XVI è un teologo e non manca di mostrarlo. Ha spiegato che ogni dettaglio della nostra esistenza è noto a Dio già al momento del concepimento, per cui ogni embrione ha in sé un'intera esistenza umana perfettamente definita.

Certo l'onniscienza di Dio comporta anche questo. Mi fa piacere che un'autorità religiosa così importante abbia ritenuto necessario affermarlo chiaramente in pubblico. Ma a questo punto che libertà ci resta? Se l'onniscienza di Dio gli consente di sapere in anticipo che cosa faremo, siamo veramente liberi? Se il tutto, nella sua completa estensione spaziale e temporale è presente a Dio nella sua eternità, allora la nostra vita non è forse una pura illusione, un film che Dio proietta per suo diletto ma che già esiste per intero sulla pellicola fin dall'inizio? Questo annulla la nostra libertà molto più radicalmente di eventuali interventi diretti a rimedio del male. 

Non si sfugge a questo argomento: se il minimo dettaglio della nostra vita mutasse, insorgerebbe una contraddizione. Siamo predestinati nel minimo dettaglio delle nostre esistenze, il tempo è solamente un'illusione. Noi crediamo di svilupparci, di maturare, di andare incontro ad eventi mutevoli nella vita, ma nell'eternità tutto è già certo ed immutabile. Si aggiunge che Dio è responsabile di tutto il male che vi è nel mondo, perché l'ha creato lui e sapeva fin dall'inizio che cosa sarebbe successo. Questo non contiene contraddizioni in merito all'esistenza (1), all'eternità (5) ed all'onniscienza (4), ma non permette di conciliare la creazione (2)  con la bontà e la misercordia (8). Dio non può essere considerato buono e misericordioso se conosce ogni dettaglio della creazione che egli stesso ha compiuto, dobbiamo ritenerlo indifferente nella maniera più assoluta. Non ci ha dato alcuna libertà, ma ci ha predestinati ad una data sorte buona o cattiva in modo inderogabile.

L'onniscienza vanifica dunque l'argomento della libertà usato per giustificare l'esistenza del male e pone in dubbio la natura stessa della creazione. Però intravediamo una soluzione al problema del tempo: se il tempo è pura illusione, allora salviamo l'immutabilità di Dio. Ma se è così, allora l'universo è coeterno a Dio e la creazione intesa come atto non ha mai avuto luogo.

Personalità

La cosiddetta "volontà di Dio" costituisce un altro grave problema. Un essere eterno ed onnipotente può volere qualcosa? La volontà ha a che fare con l'azione, e l'azione col tempo - un essere eterno e perfetto non è nel tempo, per lui non si può parlare di volontà ma solo di atto. La cosa si spiega attribuendo alla volontà di Dio la coincidenza con la sua realizzazione. Questo però equivale a cambiare il significato della parola, che viene ad indicare qualcosa di sostanzialmente diverso da ciò che noi intendiamo comunemente come volontà. Si tratterebbe di una metafora, carica di portati emotivi ma senza potere esplicativo. Dobbiamo concludere che l'applicazione del termine "volontà" a Dio è inadeguato e fuorviante. Come poi si possa affermare che accadono cose "contro la volontà di Dio" non è spiegabile logicamente. Dovremmo ritenere che Dio vuole anche cose che non accadono, il che sarebbe una contraddizione patente - in conclusione possiamo soltanto parlare di metafore o accettare l'illogicità dei monoteisti. Se la volontà di Dio coincide con l'atto, allora tutto ciò che accade è per volontà sua, quindo non ha alcun senso ordinare a qualcuno di fare qualcosa perché "Dio lo vuole": se davvero Dio lo vuole, quella cosa accadrà e basta.

La bontà e misericordia divine sono problematiche anche in se stesse. Dobbiamo chiederci quale senso dare alle stesse parole che usiamo: come si concilia la misericordia con la perfezione e con l'atteggiamento punitivo che si attribuisce a Dio? Se è misericordioso come può imporre punizioni ad esseri imperfetti nati così per sua volontà, per loro natura incapaci di perfezione? Ancor più, la bontà e la misericordia, così come la giustizia, richiedono che Dio consideri il mondo fenomenico nel suo divenire temporale, si cali in esso. Se Dio non si calasse nel mondo, bontà e giustizia dovrebbero essere realizzate nella struttura del mondo stesso, che dovrebbe essere un meccanismo perfetto oltre che totalmente determinato. Abbiamo visto più sopra che Dio conosce esattamente tutto della nostra esistenza fin dall'inizio - ma allora non c'è nulla in cui calarsi.

I cristiani diranno che appunto per calarsi nel mondo Dio si è fatto uomo in Cristo. Ne parleremo di nuovo un po' più avanti. Qui basta dire che con la definizione che abbiamo dato di Dio la sua incarnazione in un uomo è totalmente illogica, come sostengono del resto ebrei e mussulmani. Si tratta di una concezione mistico/magica che non si può affrontare con la ragione. Ma la ragione è tutto ciò che abbiamo. Se decidiamo di credere alle assurdità, come possiamo scegliere quali sono le assurdità in cui si deve credere tra tutte le assurdità che si dicono e si riportano? Rispondere che è scritto in un libro non funziona: a quale libro dobbiamo credere? Rispondere che dobbiamo usare come criterio i miracoli equivale a dire che dobbiamo credere a fatti assurdi (i miracoli) per giustificare credenze assurde... e di nuovo come possiamo distinguere i miracoli veri da quelli falsi, e quelli buoni da quelli maligni?

Queste difficoltà che abbiamo citato si riferiscono al concetto di Dio come persona. Attribuendogli volontà, bontà, misericordia, giustizia i monoteisti attribuiscono a Dio una personalità, che risulta inconciliabile con altri suoi attributi, soprattutto l'eternità e la perfezione. La personalità esiste se si sviluppa nel tempo, in quanto pensieri, volizioni, atteggiamenti mentali ne sono parte indispensabile, e sono inevitabilmente sviluppati nel tempo. Il tempo è il presupposto di qualunque attività mentale, ed una persona senza attività mentale non può esistere, non come persona almeno. Una persona senza tempo è come la musica su un disco senza il giradischi. Il Dio perfetto ed eterno non sembra possa essere una persona, perché in qualche modo una persona deve avere pensieri, ed i pensieri per loro natura sono nel tempo.

Conclusione

In conclusione, la definizione di Dio che abbiamo trovato è incoerente. Il contrasto nasce principalmente tra quelle parti della definizione che fanno riferimento all'etermità e perfezione e quelle che implicano la personalità. Non è un caso: infatti quella definizione sintetizza una parte di teologia razionale di origine puramente filosofica con una visione della divinità che proviene dal culto. Possiamo provare ad abbandonare alcuni punti della definizione e vedere che cosa ne risulta.


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L'abbandono del dualismo

E' interessante notare come il monoteismo non sia monistico. Esso riconosce due entità ben distinte: Dio ed il mondo. Questo però genera, come abbiamo visto, notevoli difficoltà logiche.

Una concezione che può sfuggire a tali difficoltà è quella per cui il dio è immanente e coincidente con la totalità di ciò che è (veramente, non di ciò che appare). Non crea nulla, perché  col suo stesso essere fa essere il mondo. Quest'ultimo può essere concepito come una sua manifestazione, oppure come una pura illusione. E' una categoria generale di teorie metafisiche che possiamo accomunare sotto la definizione di non-dualistiche, contrapposte al  monoteismo occidentale che invece è rigorosamente dualistico (Dio separato dal mondo).

Una volta adottata questa concezione non dualistica, rimane la scelta tra le sue diverse formulazioni concepite dai filosofi sia occidentali sia orientali. Forse la forma più elaborata e raffinata è quella dell'induismo di corrente vedanta, che trova le sue radici già nelle Upanishad. Nella Chandogya Upanishad (sesto prapathaka) si trova ripetuto più volte il famoso passaggio:
"Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l'universo è costituito di essa, essa è la vera realtà, essa è l'Atman. Essa sei tu, o Svetaketu".

Secondo la dottrina vedantica, l'unica realtà è il brahman (sostantivo neutro), che nella Chandogya è chiamato anche semplicemente Sat, cioè Essere. Si tratta di un principio assoluto non personale ma appartenente alla sfera dello spirito, mentre la materia è pura illusione, così come l'individuo stesso. L'unica realtà dell'individuo è il suo atman, che non è individuale ma coincidente col brahman. La natura dell'individuo e del mondo empirico è spiegata con una costruzione sistematica complessa ed articolata, che non tratteremo certo qui.  In questa costruzione c'è anche posto per un Dio persona, Ishvara, che però non è assoluto proprio in quanto è personificato. Il primo passo  verso il mondo fenomenico si compie quando l'atman prende coscienza e comincia ad avere desideri, diventando così persona. C'è posto per la creazione, che è opera di un dio inferiore, Brahma, a sua volta manifestazione (murti) di Ishvara. Ci sono poi perfino le incarnazioni o discese (avatara) della divinità nel mondo umano, tra le quali le più importanti sono Rama e Krishna. Ciò che è assoluto ed eterno è il brahman, la personalità viene dopo, la creazione ancora dopo, il male è frutto di pura illusione. Ma di tutta la costruzione il punto fondamentale è il non-dualismo (advaita). Al di là dell'abbondantissima coloritura mitica, il vedanta ha una solida base filosofica, basata sulla tradizione della logica indiana.

In occidente il primo filosofo a cui si pensa, tra i monisti, è Baruch Spinoza. Spinoza procede con "metodo geometrico" a forza di dimostrazioni arrivando all'unicità della sostanza e quindi alla coincidenza di dio con tutto ciò che esiste. Gli individui non sono sostanze ma soltanto modi dell'unica sostanza, che è dio. Questi non ha volontà ed intelletto come li intendiamo comunemente, non è dunque persona, ma fondamento impersonale assoluto ed eterno di tutto ciò che è.

Spinoza dimostra abilmente la coerenza logica dell'immanentismo, anche se non dimostra la sua validità in assoluto. Qualunque argomentazione logica è valida tanto quanto i suoi assiomi - e questi sono arbitrari. In ogni teoria basata sulla logica, infatti, devono esistere proposizioni non dimostrabili, che si adottano come punti di partenza. Tramite il ragionamento deduttivo possiamo arrivare a dimostrare eventualmente l'incoerenza di un sistema di assiomi, ma non la sua necessità. E' difficile però negare che, sulla base delle definizioni tradizionali di sostanza, eternità e così via, la soluzione più coerente sia quella di Spinoza.

L'immanentismo, nelle sue varie forme (tra cui l'hegelismo e perfino il marxismo, che ne è una versione materialistica) è attraente appunto per la sua coerenza. Esistono correnti, nell'ambito delle tre religioni monoteistiche, in cui si nota la tendenza all'abbandono del dualismo: si tratta soprattutto dei mistici. La loro visione della comunione con Dio li pone sulla strada del monismo, destando i giusti sospetti del clero dualista.

La concezione non dualista finisce per essere ancor più decisamente deterministica del monoteismo dualista. Se vi è un solo Essere, per di più perfetto, allora tutto è determinato e la varietà del mondo fenomenico è illusoria. All'individuo non resta che seguire la via dell'unione col tutto.

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Altre soluzioni all'incoerenza del monoteismo

Vorrei chiarire che l'onniscienza non è necessaria per un creatore, neppure se il mondo creato è basato su regole deterministiche. Nel momento in cui creiamo (anche sul piano più modesto in cui lo può fare l'uomo) un sistema pur deterministico, in quanto basato su regole inderogabili ad ogni passo della sua evoluzione, non necessariamente possiamo prevedere quale sarà il suo sviluppo futuro. Per chiarire questo punto molto difficile faccio l'esempio di un programma di calcolatore per il gioco degli scacchi. Il programmatore che lo ha scritto, quindi l'ha creato e ne conosce ogni dettaglio di funzionamento, può essere battuto dal programma stesso nel gioco, perché non può prevederne le mosse. Infatti la scrittura di un programma significa scrivere regole di funzionamento, che di per sé sono inderogabili. Ma l'effettivo svilupparsi di tali regole nel comportamento del programma non è predeterminato, perché dipende dall'evolversi delle situazioni: ad ogni situazione il sistema risponde tramite un'elaborazione che segue le regole imposte, ma non può essere prevista se non applicando quelle stesse regole, cioè facendo funzionare il programma stesso! Una piccola variazione all'inizio della partita aprirà un universo di possibili sviluppi del gioco, in cui il programma si muoverà in base a come è stato costruito. Se però, come accade già nel caso del nostro esempio, si tratta di un programma complesso, il risultato dell'effettiva applicazione di queste regole non è ricostruibile in altro modo che applicandole ed osservando quello che accade.

La comprensione di questo ragionamento è facile per chi di mestiere fa il programmatore e si scontra quotidianamente con programmi che non fanno quello che dovrebbero, cosa che sembrerà strana se si pensa che un calcolatore non fa altro che applicare ciecamente regole basate su un linguaggio logico. Eppure tutti sappiamo quanto siano imprevedibili i computer!

La matematica moderna abbonda di studi sul caos deterministico: l'applicazione ripetuta di regole o formule semplicissime e assolutamente determinate produce sistemi la cui evoluzione è estremamente complessa ed imprevedibile. Qui non si tratta del funzionamento di programmi complessi, come quelli che giocano a scacchi, ma della semplice iterazione di formule matematiche molto semplici. In questo caso la scrittura di un programma di calcolatore che ne produca i risultati è ingannevolmente semplice; eppure il risultato è di enorme ed imprevedibile complessità.

Per fortuna esiste l'evidenza empirica che la fisica fondamentale non è deterministica: non vi è alcun modo di conoscere nei minimi dettagli la realtà fisica (principio di Heisenberg) e non si possono fare previsioni assolute sul risultato di un esperimento quantistico.

E' possibile però che esista un dio creatore di altro tipo, imperfetto e calato egli stesso nel tempo - se così fosse ogni contraddizione sparirebbe. Un creatore buono ma imperfetto spiegherebbe il mondo com'è, ma non siamo in grado di dire se egli ci sia o no. In ogni caso, sarebbe una questione empirica, perché tale dio sarebbe un essere fenomenico come noi, sebbene molto più grande e potente.

Questa concezione di un creatore imperfetto si trova in Platone, nel Timeo. Come abbiamo visto sopra, anche gli induisti credono che la creazione sia opera di un dio inferiore, sia pure in un contesto diverso.

Siamo tutti abituati a sentire confutazioni del politeismo. Ci viene detto che Dio è uno, e non può essere diversamente perché l'esistenza di più di un essere perfetto non è possibile. Ma la perfezione di un essere dotato di personalità e creatore del mondo, come abbiamo visto, determina essa stessa incoerenze logiche. Del resto, gli dei del politeismo non sono affatto perfetti né pretendono di esserlo. Sono esseri immortali nell'ambito del mondo, ma non necessariamente in assoluto: in genere si ammette che alla fine del mondo in cui viviamo gli dei stessi muoiano per poi eventualmente rinascere. Questo mito esiste nella tradizione dell'Europa del nord (il crepuscolo degli dei) come in quella dell'India (il crepuscolo di Brahma). I molti dei sono dotati di grandi poteri, ma non di onnipotenza. Non vi è alcun motivo logico per negarne l'esistenza, a parte l'assenza di prove a favore, naturalmente.

L'induismo vedanta riesce a sintetizzare il politeismo col monoteismo e con l'immanentismo non dualistico con una teologia complessa e raffinata. Ma perfino il cristianesimo contiene elementi di politeismo: la dottrina della trinità infiltra un elemento di molteplicità nel divino, mentre la molteplicità delle figure oggetto di venerazione da parte dei cattolici introduce ulteriori elementi di pluralismo soprattutto nel culto.

Non vi è motivo logico per non credere che vi sia una molteplicità di potenze divine, una o più delle quali addirittura possono aver creato il mondo. Il principio assoluto unificante dell'universo può invece non essere una persona ma appunto soltanto un principio. Elementi di questa concezione sono presenti addirittura nel credo niceno: tutti i cattolici nella Messa affermano senza pensarci troppo che il Padre ha creato il cielo e la terra "per mezzo" del Figlio, e peraltro quando pregano si rivolgono soprattutto alla Madonna ed ai santi, qualche volta a Gesù, praticamente mai a Dio. Esattamente come gli indù che pregano molto spesso Rama oppure Krishna, svariate volte Shiva o Vishnu, molto raramente Brahma e mai Ishvara o tantomeno il brahman, al quale rivolgere preghiere non avrebbe proprio senso.

La Kabbalah ebraica introduce una gerarchia di entità discendenti da Dio, di cui sono manifestazioni(!): le dieci Sefirot. L'ultima di esse, Malkut, coincide con la Shekinà, la presenza di Dio nel mondo, che tuttavia è una manifestazione di Dio stesso. Tutto questo per superare le contraddizioni che abbiamo visto, che impedirebbero di giustificare razionalmente la creazione. A Dio non si attribuisce alcuna azione, sono le Sefirot che agiscono.

Soltanto i mussulmani sono, per quanto è di mia conoscenza, immuni da queste concessioni, anche se i Sufi prendono la via dell'unione mistica con Dio, via che rasenta, come abbiamo visto, l'immanentismo.

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Dalla morale a Dio: la via kantiana e oltre

Immanuel Kant ribaltò la tradizionale sequenza tra religione e morale, il cui esempio si trova nella Bibbia, dove Mosè riceve da Dio le tavole della legge. Per lui è la legge morale che si impone a noi di per se stessa, e da essa risaliamo a postulare l'esistenza di Dio.

La legge morale secondo Kant è una sola ed è puramente formale (l'imperativo categorico): non indica un contenuto specifico ma il modo in cui si deve determinare la massima dell'azione. Questa deve essere tale da poter valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale. La ragione ci impone l'universalità della massima, che altrimenti sarebbe particolare e individuale, quindi irrazionale e necessariamente dettata dalle inclinazioni, dai desideri, e non da una legge. Essa è presente in tutti gli uomini e si impone da sé, senza la necessità di una dettatura esterna. Anzi, in base ad essa noi giudichiamo se le leggi specifiche che altri ci propongono sono morali oppure no. Nel mio scritto intitolato Etica minima ho cercato di spiegare una concezione della morale di questo tipo, non fondata su leggi rivelate ma su principi universali, rifacendomi anche particolarmente a Kant. Rinvio pertanto ad esso per l'approfondimento del tema.

Qui ci interessa un altro aspetto, che peraltro ho trattato in Etica e metafisica: dalla legge morale possiamo risalire al postulato dell'esistenza di Dio. Infatti nasce inevitabile il conflitto tra rispetto della legge morale e conseguimento della felicità: secondo Kant tra i due c'è una contraddizione, che nella Dialettica della Ragion Pratica egli chiama antinomia della ragion pratica, per cui chi si comporta moralmente si rende infelice, mentre chi cerca la felicità segue le inclinazioni e va contro la morale. Siccome, però, tutti riconosciamo che soltanto l'individuo morale è meritevole di felicità, occorre trovare il modo in cui si possa realizzare ciò che il filosofo definisce come sommo bene (l'unione di virtù e felicità), senza che si violino i principi etici che abbiamo enunciato. La soluzione di Kant è che occorre postulare da un lato l'immortalità, per consentire ad ogni essere razionale finito di avvicinarsi progressivamente alla santità, quella condizione in cui si agisce moralmente in modo spontaneo avendo superato tutte le inclinazioni, dall'altro l'esistenza di un legislatore supremo che attivamente ordini il mondo in modo che il sommo bene sia conseguibile.

Che il creatore debba essere Dio Kant lo deduce dalla natura razionale della legge morale, che si appella alla ragione ed alla soggettività razionale; pertanto soltanto un soggetto razionale, quindi un dio personale, può esserne l'autore. Infatti il soggetto razionale è noumeno e non fenomeno, come Dio stesso.

Una prima osservazione riguarda la natura del dio postulabile in base a questa linea di ragionamento. L'atto creativo non è affatto richiesto: ciò che occorre è che la legge morale abbia realtà (in senso noumenico), quindi che sussista un principio universale assoluto, il quale ha natura di soggetto (il soggetto assoluto, l'io penso). Il principio noumenico che è il soggetto perfetto a me non sembra altro che il brahman del Vedanta. Stiamo infatti parlando della soggettività assoluta, non dell'individuo empirico. Dio non può essere persona nel senso dell'individuo empirico, dunque deve essere principio non personale seppure soggettivo.

Nonostante lo sforzo di Kant per giustificare il cristianesimo su base razionale, egli non fa altro che confermare il non dualismo. Il principio razionale assoluto soggettivo non può creare ma si limita ad essere. La presenza della legge morale in noi significa che tale principio esiste in noi, così come in noi vi è il soggetto pensante che non può essere oggetto di pensiero, l'"io penso". Questa soggettività pensante è l'atman, che coincide col brahman: questo sei tu. L'idealismo tedesco sviluppò questa linea di pensiero fino all'Idea Assoluta di Hegel.

Considerando la questione dell'immortalità dell'anima, notiamo che secondo Kant deve essere concesso all'individuo un tempo infinito per accostarsi alla santità, unica condizione per la quale si può conseguire il sommo bene. Ma qui troviamo un errore logico vero e proprio nel suo ragionamento. Egli insiste che non vi può essere nel mondo alcuna connessione tra felicità e virtù, ma parla di un progresso graduale dell'anima verso la santità. Ora, se la felicità deve arrivare tutta insieme quando si è santi, perché prima non è data felicità per effetto della virtù, allora il progresso graduale è negato. Kant però finisce per ammettere che la felicità dell'uomo onesto è legata alla contentezza di sé e non al conseguimento di vantaggi materiali. Quindi il progresso morale dovrebbe consistere nel progressivo distacco dai vantaggi materiali e nella sua sostituzione con la pace dell'animo e la contentezza di sé. Ma Kant afferma che tale processo non si può realizzare, perché l'uomo virtuoso è infelice finché non riesce ad essere perfettamente morale.

Sarebbe però sufficiente ammettere che l'unica felicità consiste appunto nel distacco dai vantaggi materiali e nel conseguimento della pace dell'animo che si lega intrinsecamente alla condotta virtuosa. Kant usa la parola felicità con due significati: la realizzazione di desideri ed inclinazioni (1) e la pace dell'animo (2). E' vero che l'uomo virtuoso (ma anche il non virtuoso) non potrà mai ottenere la felicità (1), ma a lui non dovrà importarne! Allora si capisce che il progresso morale consiste nel distacco dalle inclinazioni cattive e dalla ricerca stessa della felicità (1), per sostituirla con la ricerca della felicità (2), che coincide con la ricerca della moralità. Ci accorgiamo allora che la ricerca del progresso morale porta la felicità (2) mentre l'uomo amorale cerca la felicità (1) e alla fine sarà infelice, perché la felicità (1) non è in realtà mai ottenibile da parte di nessuno, dato che nel mondo fenomenico tutti prima o poi si scontrano con la dura verità che è impossibile soddisfare tutti i propri desideri e sfuggire alla sofferenza ed alla morte.

In conclusione, l'antinomia della ragion pratica si risolve da sé, in quanto dovuta ad un errore nella definizione della felicità.

Qual è allora il ruolo del principio divino di cui parlavamo prima? La radice dell'etica risulta essere nella corretta definizione della felicità, come pace dell'animo e non come conseguimento di utilità materiali. La pace dell'animo è una condizione soggettiva, che si produce in chi segue il buon principio morale. Il punto centrale diviene questo: il perseguire la legge morale porta come effetto la felicità (2), che è l'unica vera felicità. Questo non ha implicazioni metafisiche se non in quanto impone di credere che la ragione è valida e che l'azione buona produce un risultato buono, inteso come avvicinamento alla felicità (2). Si tratta dunque della fiducia in una natura buona che soggiace alle cose, senza che si possano fare affermazioni specifiche su di essa. Ciascuno resta libero di darle il nome che vuole.

In piena contraddizione rispetto a Kant, mi sento di sostenere che l'insegnamento della pace dell'animo come bene da ricercare sia positiva e possa produrre azione morale, perché essa risveglia nelle persone la facoltà, che come Kant stesso dice tutti hanno in sé, di comprendere quale sia il bene e perseguirlo sinceramente. Questo insegnamento è svincolato da qualunque concezione teistica o non teistica, monoteistica o politeistica.

A margine, notiamo che è assolutamente vero quanto dice Kant,  che soltanto chi agisce moralmente è libero: infatti chi persegue la felicità (1) non fa che correre dietro a desideri ed inclinazioni, diventandone schiavo. Perseguire la felicità (2) invece significa cercare appunto di liberarsi dalla schiavitù, liberazione possibile soltanto se si segue il dettame della ragione, che ci impone di andare oltre la nostra persona empirica per seguire principi generali. Ma è sbagliato che le inclinazioni buone siano irrilevanti: è la nostra ragione che ci insegna a discriminarle e ci consente anche di utilizzarle come mezzi per combattere quelle cattive. Se siamo capaci di distinguere ciò che nella sfera dei sentimenti e dei desideri è buono rispetto a ciò che è cattivo, è meritevole farne uso, purché sia un uso consapevole: resta vero che il comportamento buono è veramente tale se è consapevole e non dettato dal sentimento del momento, ma coltivare il sentimento buono fa parte della via del progresso morale, anche se la piena moralità non si basa su sentimenti ed inclinazioni ma li supera tutti. In ogni caso, anche l'azione buona fatta per inclinazione ha un suo valore, perché tende comunque a produrre pace ed equilibrio, altrimenti non sarebbe buona. Kant sbaglia nel volere il tutto o nulla, nel negare la bontà parziale che è così preziosa nella ricerca del bene, per noi esseri imperfetti.

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Autoritarismi religiosi

Il monoteismo in realtà è paternalismo autoritario

Il fanatismo, che oggi purtroppo miete molte vittime, è un esempio di come il male non nasca necessariamente dalla ricerca della felicità personale (materiale, felicità(1)). L'attentatore suicida fa del male prima di tutto a se stesso, non cerca sicuramente la felicità personale - o forse la cerca in una prossima esistenza dove ritiene di essere ricompensato.

La metafisica è utile soltanto se rimane sul piano filosofico e quindi del ragionamento; le costruzioni metafisiche basate su principi autoritari sono invece altamente pericolose. Se riteniamo che le regole di comportamento provengano dall'esterno, da autorità superiori più o meno divine, possiamo essere indotti a comportamenti abnormi. Se infatti attribuiamo ad una certa formula un valore etico assoluto, e poi troviamo un'autorità che asserendo di interpretarla ci ordina di fare qualche cosa, eseguiremo l'ordine senza discutere. L'autorità dogmatica potrà sempre, infatti, accusarci di infedeltà o di eresia se cercassimo di sottrarci all'obbedienza.

Un atteggiamento dogmatico consente di imporre qualunque credenza o prescrizione. Pensiamo alle proibizioni alimentari: hanno un senso se motivate igienicamente, ma ripugna alla ragione pensare che Dio prescriva che cosa mangiare e da che cosa astenersi in modo assoluto. Qualunque prescrizione alimentare dovrebbe essere basata su considerazioni pratiche, non sui testi sacri!

La discussione metafisica con cui ho cominciato questo scritto serviva a mostrare che il monoteismo non si può basare sulla ragione. Esso infatti si basa sulla credenza nell'Autorità di Dio, dei testi sacri e delle gerarchie religiose. Questa credenza è un pericolo per l'umanità, causa di infiniti conflitti. Non si deve confondere la fede individuale con questo tipo di credenza. I fedeli sinceri non badano troppo alla lettera del testo sacro, semplicemente vi cercano conforto quando occorre. Un vero credente può ammettere che vi sono elementi divini in testi non considerati sacri, e viceversa ci sono parti del testo sacro che è meglio non considerare, ed in generale che il testo sacro non può essere sempre preso alla lettera. Riconoscerà che il rapporto con Dio non è necessariamente di sottomissione, ma prima di tutto anzi è di amore. L'importanza di questo elemento è riconosciuta dai cattolici, che attraverso la loro ferrea gerarchia riescono a tenere insieme elementi diversi e contraddittori. I protestanti ed i mussulmani, invece, sottolineano molto più decisamente l'obbedienza ed il rigore nel rispetto delle prescrizioni, non avendo una gerarchia ben delineata ma soltanto una rete di scuole e predicatori fortemente autonomi.

Il punto centrale che contraddistingue il monoteismo è dunque la richiesta di obbedienza assoluta ed incondizionata, che troviamo ad esempio nel decalogo biblico (Esodo 20,4), in cui Dio si dichiara "geloso" e minaccia punizioni per più generazioni, in contrapposizione alla proposta aperta che troviamo ad esempio nel canone buddista (Anguttara-Nikaya III - 65,14), in cui si chiede al discepolo di valutare personalmente la validità dell'insegnamento e di seguirlo soltanto se è intimamente convinto della sua validità.

Questo è il punto chiave che differenzia una visione del mondo con potenzialità di fanatismo da una che non ne ha: il ritenere che vi sia una fonte esterna ed imperscrutabile da cui vengono comandi assoluti, piuttosto che affrontare ogni questione con le proprie facoltà di giudizio.  Possiamo esprimere in un altro modo questo concetto: c'è chi vuole rimanere bambino tutta la vita ed avere un Padre celeste, rappresentato qui sulla Terra da una gerarchia religiosa, che gli dice che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, ed invece chi vuole diventare adulto ed assumersi la responsabilità del proprio comportamento.

La caratteristica propria della religione monoteistica come si è caratterizzata in Occidente si trova in questo: che si pongono le regole nelle prescrizioni divine, di un Dio che è Padre e dotato di assoluta autorità, che parla a noi tramite le parole scritte in un libro, considerate sacre,  e soprattutto tramite l'interpretazione che l'autorità religiosa ne dà. In questo modo ci si lega a prescrizioni arbitrarie date come indiscutibili, aprendo la strada alla possibilità del fanatismo. L'arbitrarietà è appunto qui, e non nell'affidarsi alla naturale capacità di ogni essere umano di ragionare e valutare. Perché i principi della ragione sono universali, le parole dei libri no. Anche le religioni non monoteistiche hanno libri sacri e prescrizioni, ma la loro natura intrinsecamente pluralista ne limita l'influenza: se non si riconosce un principio unico supremo è meno facile costruire un sistema di dogmi da imporre. La differenza è soprattutto psicologica: ognuno di noi da bambino aveva i genitori, e soprattutto il padre, come autorità suprema a cui obbedire. Si cerca di utilizzare questo meccanismo psicologico universale per mantenerci perennemente minorenni.

Se confrontiamo i testi sacri con le effettive prescrizioni delle religioni organizzate, abbiamo poi una sorpresa: spesso non coincidono! L'appello all'autorità è così forte che il fedele neanche confronta quello che gli viene imposto con le parole effettivamente contenute nel testo sacro. Del resto, ogni persona sensata non può fare a meno di riconoscere che non si possono prendere i libri sacri alla lettera, anche solo per il fatto che sono testi antichi, che si riferiscono ad un contesto storico e sociale completamente diverso dall'attuale. Tanto che periodicamente si hanno tentativi di ritorno alla lettera del testo, che sono causa di conflitti e di esplosioni di fanatismo, dato che il loro scopo è inattuabile e può solo tradursi in un tentativo violento di far tornare la società indietro di secoli. Tentativo destinato al fallimento, ma non senza sofferenze e traumi.

Laddove il monoteismo occidentale non ha potuto esercitare la sua influenza, non vi sono conflitti a base religiosa. L'India conobbe le guerre di religione soltanto con l'arrivo dei mussulmani, mentre i paesi dell'estremo oriente sono da sempre multireligiosi. Addirittura alcune persone si dichiarano simultaneamente appartenenti a più religioni (molti giapponesi, ad esempio, sono nello stesso tempo buddisti e scintoisti).

Oggi assistiamo nel mondo allo scontro tra il cristianesimo fondamentalista degli Stati Uniti d'America, di cui è espressione il presidente Bush, e l'islamismo estremista che ha le sue basi in Arabia Saudita, Pakistan ed Egitto per i sunniti, in Iran per gli sciiti. Si noti il paradosso per cui i paesi d'origine dell'estremismo islamico sono considerati amici degli Stati Uniti, che hanno invaso l'Iraq laico e l'Afghanistan che, prima dell'interferenza dei talebani ispirata dal Pakistan, era prevalentemente caratterizzato dal misticismo Sufi.


Il monoteismo attenuato

La chiesa cattolica, come abbiamo visto, si contraddistingue per un forte autoritarismo gerarchico unito ad una sostanziale tolleranza non dichiarata verso visioni del mondo di tipo diverso. Uno dei punti che la contraddistinguono è il culto della Madre affiancato e spesso prevalente rispetto a quello del Padre. Si tratta di un elemento storicamente proveniente dalle religioni mediterranee precristiane, che si basa su un altro risvolto della psicologia umana: il bambino non ha soltanto il genitore maschio, ovviamente. La madre è colei che esercita un influsso in genere molto più profondo e significativo sui figli, non soltanto attraverso l'autorità ma anzi principalmente attraverso la partecipazione affettiva. Assumendo ad un alto ruolo cultuale la figura della Madonna, Madre di Dio, il cattolicesimo utilizza un altro metodo di proseguimento della minorità a vita del fedele, più benevolo e pacifico ma anch'esso molto efficace, forse addirittura più efficace dell'altro.

Per inciso, la stessa dizione "Madre di Dio" è sul piano logico un'assurdità totale, la concezione di Dio dei monoteisti non è conciliabile col fatto che abbia una madre... ovviamente lo si dice perché Gesù è Dio e Maria sua madre in termini corporei, senza implicazioni metafisiche. Le implicazioni sono unicamente psicologiche! Per i fedeli, e soprattutto le fedeli, il rango della Madonna è percepito come addirittura superiore, in termini affettivi appunto e non teologici, a quello del Figlio.

Questo tipo di monoteismo parzialmente femminilizzato non si presta alla produzione di guerrieri fanatici, perché si può indurre ad uccidere in nome di Dio, ma non in nome di sua madre. Perciò risulta meno utile ai fini del potere politico, mentre è assai efficace nel preservare il potere puramente religioso. In tempi come i nostri, in cui si dispone di armi e strumenti atti a distruggere il mondo, una concezione religiosa autoritaria ma di tipo materno anziché paterno è di per sé molto più salutare. Il cattolicesimo odierno è radicalmente contrario alle crociate e predica la pace e la convivenza amorevole.

Si capisce anzi perché le gerarchie maschili del cattolicesimo si oppongano al sacerdozio femminile: in una religione in cui l'elemento femminile è importante, le donne potrebbero prendere il potere! Personalmente sarei felice di vedere una chiesa cattolica sessualmente paritaria, potrebbe essere l'inizio di un'evoluzione positiva per l'umanità intera, una forza di pace straordinariamente potente.

Ma anche i monisti...

Anche l'immanentismo può dare origine a concezioni pericolose. Abbiamo visto che esso porta ad una concezione deterministica in senso assoluto, per cui non esiste alcuna libertà e ciò che accade coincide con ciò che deve accadere. La svalutazione dell'individuo che risulta da una concezione del mondo totalmente monistica si può tradurre in una forma alternativa di autoritarismo, travestito di oggettività razionale. Dovrebbe essere noto come l'hegelismo di destra e di sinistra abbia contribuito all'origine dei due totalitarismi del Novecento, quello nazifascista e quello comunista-stalinista. La mancanza dell'appello ad un dio personale li ha resi però deboli al confronto con le religioni monoteistiche: la forza della dogmatica è molto superiore se si può fare appello ad un'autorità metafisica di tipo personale esterna al mondo. Viene a mancare un elemento psicologico essenziale: lo sfruttamento dell'immagine paterna come fonte di autorità, che fa leva su predisposizioni psicologiche profondamente radicate negli esseri umani.

Il monismo induista è usato anche oggi come arma ideologica contro il monoteismo mussulmano, nel subcontinente indiano. Il buddismo è scomparso dall'India secoli fa, schiacciato tra indù e mussulmani, non essendo per sua natura portato al conflitto. L'induismo è così raffinato da mettere insieme monoteismo, monismo e politeismo, soddisfacendo le esigenze di tutti: dalla religiosità popolare alla filosofia al misticismo. La concezione della reincarnazione ben si combina col sistema delle caste per creare stabilità sociale su una base dogmatica metafisica. Abbiamo quindi il caso di un monismo utilizzabile come strumento di potere.

La sua debolezza è dovuta alla mancanza di universalità: il sistema delle caste ha senso soltanto tra gli indù di nascita, perché tutti gli altri non essendo nati indù non sono collocati in una casta... il che impedisce di dare loro un ruolo gerarchico nella società.

La turbolenza dei mussulmani è invece dovuta anche all'egualitarismo, che li pone tutti (solo i maschi naturalmente) come uguali davanti a Dio e quindi potenzialmente ribelli all'autorità politica che non sia in grado di appoggiarsi a quella religiosa. Gli indù invece sono persuasi ad accettare la condizione in cui si trovano, inclusa quella dei fuori casta, chiamati in occidente intoccabili. Questo spiega la straordinaria immobilità dell'India in mezzo ai marosi della storia. Fa anche capire perché un estremista indù uccise il Mahatma Gandhi: egli voleva abolire il sistema delle caste, che è fondamentale nella visione induista perché costituisce lo strumento fondamentale del controllo sociale. Gandhi aveva una concezione aperta della religione e cercava la conciliazione di tutte le fedi. Purtroppo la sua opera non è stata sufficiente: come tanti altri prima di lui, è stato messo sugli altari ma non seguito nel suo vero insegnamento.

La religione laica del marxismo-leninismo ha avuto un certo successo, ma ha dovuto ricreare la figura paterna in quella dei leader, come Lenin, Stalin e Mao. Il culto della mummia di Lenin nel mausoleo esprime chiaramente il tentativo di riprodurre forme tipiche del monoteismo occidentale divinizzando il leader. Ma il comunismo rimane un ideale puramente razionale e filosofico, e questo tipo di sfruttamento religioso non ha attecchito a sufficienza: non era possibile per una gerarchia dichiaratamente atea e materialista smentirsi e dire che Lenin, Stalin e non so chi erano incarnazioni di Dio! La potenza psicologica della figura divina era sfruttata solo parzialmente.

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Una religiosità aperta

Il monoteismo non è la concezione migliore

Abbiamo visto come la concezione monoteistica occidentale, come l'abbiamo chiarificata all'inizio, presenti notevoli difficoltà logiche, tanto da non poter essere accettata nella forma in cui l'abbiamo definita inizialmente. Le concezioni alternative non inferiori ad esso, anzi spesso metafisicamente più coerenti, sono numerose, ad esempio abbiamo:

ma non vogliamo certo qui fare un elenco esaustivo e dettagliato di tutte le concezioni metafisiche escogitate dall'umanità. Non si trova il motivo per preferirne una. Forse nessuna va bene.

Successivamente abbiamo analizzato il vero fondamento del monoteismo come lo abbiamo definito all'inizio: la costruzione di un autoritarismo religioso basato sulla funzione paterna sublimata, allo scopo di mantenere i fedeli nella minorità. Vediamo allora come si può costruire una visione del mondo opposta all'autoritarismo.

Una via alternativa

Se intraprendiamo dunque la via opposta, quella che parte dall'etica per arrivare alla metafisica, ci accorgiamo invece che possiamo costruire facilmente un credo minimo e semplice: se accettiamo che esista ed abbia un senso un principio etico, allora dobbiamo credere che vi sia un principio buono nell'universo, che rende conto della validità della ragione e della possibilità del bene. Partendo da una metafisica monoteistica, infatti, ci scontriamo con il paradosso della teodicea, che ci rende incomprensibile l'esistenza del male oppure ci nega la possibilità di ammettere che Dio sia buono. Se invece accettiamo che il punto di partenza sia la semplice ammissione che l'azione buona produce frutti buoni mentre l'azione cattiva produce frutti cattivi, non dobbiamo giustificare logicamente l'esistenza del male, ma soltanto avere fede nella possibilità del bene e nella validità di questo semplice principio. Si può affermare che questo rimane appunto un atto di fede, ma la sua semplicità ci consente di chiedere a chiunque di assumerlo almeno come ipotesi.

Nella discussione sull'esistenza di Dio abbiamo notato come la categoria di causa non sia applicabile fuori dell'ambito fenomenico. Anche in campo etico la stiamo applicando, quando parliamo dei frutti dell'azione, tant'è vero che i buddisti, a cui mi sto rifacendo, chiamano appunto principio della causa e dell'effetto la legge che abbiamo espresso sulla qualità morale dell'azione. Dobbiamo notare che c'è una sottile distinzione da fare: da un lato, stiamo effettivamente usando la categoria di causa, e non fuori luogo perché parliamo di fatti dell'esperienza, interiore piuttosto che esteriore; dall'altro, si tratta di qualcosa di diverso, in quanto è il risvolto morale dei fatti quello che consideriamo, e non il concatenarsi dei fenomeni. In ogni caso, tutto ciò che ci si chiede è di aver fiducia nella nostra naturale capacità di ragionare sul mondo, senza la quale cessa ogni discorso.

Abbiamo anche visto, discutendo l'argomento kantiano del sommo bene, che in realtà occorre soltanto definire correttamente la felicità per eliminare il paradosso per cui chi si comporta bene spesso è infelice. L'infelicità dipende da una concezione errata della felicità: possiamo imparare a liberarcene ed a riconoscere che l'unica felicità è la pace interiore di colui che compie il bene - felicità che non è intesa come scopo ma come componente intrinseca del fare il bene.

La validità di questa concezione si può valutare, non è necessario credervi ciecamente. Ma una volta che abbiamo riconosciuto la verità del principio per cui il bene causa il bene, possiamo anche dire che abbiamo acquisito la fede in un certo qual principio universale del bene. Non è necessaria metafisica per questo, anzi la metafisica risulta  dannosa, perché crea inutile confusione e può indurre a concezioni malsane. Occorre soltanto un'antimetafisica che neghi le sovrastrutture essenzialiste e ce ne liberi.

Figure di riferimento

Che cosa resta della fede religiosa dunque? In realtà molto. Tolta di mezzo la metafisica inutile, possiamo accorgerci ad esempio che il principio buono si esprime nel mondo attraverso le persone buone, e che ci sono state e tuttora ci sono persone che manifestano tale principio in modo particolare. Ciascuno è libero di esprimere a proprio modo questo concetto, ma depurarlo della metafisica è soprattutto utile per non causare conflitti. Che importa quale fosse lo status metafisico di Gesù Cristo, se possiamo vedere comunque in lui una figura di riferimento? Per i cristiani era Dio stesso, per i mussulmani un profeta - ma qual è il punto veramente importante? Togliendo la parte metafisica possiamo presentarlo con equanimità anche agli ebrei, che non gli riconoscono alcunché, quando invece egli in fondo altri non era che un ebreo che voleva riformare la propria religione e non fondarne altre.

Sicuramente la psiche umana trova più facile rifarsi ad una figura antropomorfa piuttosto che a principi astratti. Perfino concetti come la libertà o la giustizia sono spesso raffigurati, nella nostra tradizione, come giovani donne.

Se rinunciamo agli assolutismi dogmatici, possiamo riconoscere che può essere utile avere figure di riferimento, umane o anche sovraumane, per il nostro sviluppo spirituale. E' necessario però che evitiamo di adorarle in modo superstizioso, anzi dobbiamo sempre avere ben presente che si tratta di esempi e riferimenti, non di realtà metafisiche. Questa concezione è chiaramente in conflitto con l'insegnamento delle religioni monoteistiche organizzate, eppure secondo me non è per nulla in contrasto con la religiosità degli autentici credenti. Dire "questa è la volontà di Dio" può essere un modo per dire "questo è ciò che si deve fare, perché è bene". Occorre però che sia sempre ben chiaro che non si tratta di un'imposizione ma del perseguimento della scintilla di divinità presente in noi, a sua volta da non confondere con una concezione immanentistica in senso panteistico. La seconda formulazione secondo me è preferibile, perché ci porta a chiederci se sia veramente bene. "Uccidi il nemico perché Dio lo vuole" dovrebbe suonare come una bestemmia.

La figura di Gesù, ad esempio, può essere adottata come riferimento al di là di qualunque concezione metafisica.  L'abbandono della sovrastruttura teologica potrebbe consentirci una migliore comprensione del significato della sua esistenza - non Dio come Autorità ma l'Uomo che morendo dà un significato universale alla sua esistenza e dopo la morte risulta più vivo di prima... Un tema importantissimo che richiede molto più spazio ed un proprio contesto. Abbandonare intanto il Dio metafisico di cui abbiamo tanto parlato, per adottare una divinità su cui non si possono fare discorsi complicati, ma che rappresenta semplicemente la realtà del bene.

Per tornare ai concetti della diversità delle manifestazioni della fede e della devozione, osserviamo che il cattolico devoto alla Madonna non è diverso dal buddista devoto a Tara (figura per certi aspetti analoga). Si deve capire che in entrambi i casi ci si serve di un'immagine per personificare il bene, in quanto l'animo umano trova giovamento nella personificazione e soprattutto nel riferimento a figure fondamentali della sua vita, come quella della madre. Non si tratta di "relativismo", perché il bene è sempre lo stesso, cambiano i dettagli degli strumenti con cui ciascuna persona lo ricerca, perché non siamo uguali: siamo nati in luoghi diversi, parliamo lingue diverse, abbiamo culture diverse, una storia personale diversa. Ma tutti cerchiamo il bene che è lo stesso per tutti, solo apparentemente in modi diversi. Si tratta però di assumere la consapevolezza che queste figure non sono entità metafisiche ma immagini utili al nostro sviluppo spirituale. Questo è il punto veramente difficile: avere ben presente che Gesù e Maria erano esseri umani, prima di tutto, anche se vogliamo e possiamo considerarli specialmente pervasi del principio divino (cioè del bene).

E' la rinuncia alle essenze metafisiche il principio liberatorio, che ha il solo difetto di eliminare le gerarchie religiose di tipo autoritario - per sostituirle con quell'autorità che viene dalla stima e dal rispetto per chi dimostra di saper seguire un cammino spirituale, prima di tutto nella propria persona. Coloro che si attaccano al proprio ruolo senza esserne degni combatteranno per mantenerlo, mentre coloro che vivono per il bene non hanno ruoli da difendere ma soltanto azioni buone da compiere, diventando un esempio senza volerlo.

Chiarimento conclusivo

Ma se il bene produce il bene, qual è l'inizio della catena dal punto di vista pratico? Il punto nodale dell'etica, come ho spiegato in etica minima, consiste nel riconoscere l'altro come uguale a sé. Questo distrugge alla radice anche il fanatismo ed i conflitti ideologici. Ognuno può seguire la propria via, ma riconoscendosi in chi ha di fronte non potrà compiere il male. E' anche un modo di formulare l'imperativo kantiano, ma qui vorrei sottolineare soprattutto che comporta la necessità di amare il proprio nemico, secondo la prescrizione evangelica. Se prestiamo attenzione, notiamo che l'affermazione che il bene produce il bene deriva dall'identificazione con l'altro: infatti se capisco che io e il mio prossimo siamo uno, allora capisco che perseguire il mio bene a scapito del suo è una contraddizione e che per questo l'azione cattiva porta cattivi frutti. Infatti l'azione cattiva consiste nel cercare di soddisfare una parte (la mia) contro un'altra (il mio prossimo) di un'unica realtà, e quindi è un'azione sbagliata e controproducente. Attenzione però, che questo essere uno non ha una base metafisica, è soltanto un modo di porsi nei confronti del mondo e degli altri. La metafisica è un accessorio, viene dopo o può non venire mai.

Ritengo che questo sia un insegnamento rivoluzionario, che mina alla base tutte le sovrastrutture del potere, e per questo nel mondo è costantemente combattuto da coloro che perseguono il dominio dell'uomo sull'uomo. Chi aspira al potere per il potere stesso non può che opporsi a questo modo di vedere le cose. La ricerca del potere, tramite la forza o il denaro o l'autoritarismo religioso è invece il più grave di tutti i moventi sbagliati, perché induce a causare grandi mali, compresa la persecuzione di chi cerca invece di operare il bene. Non casualmente chi è mosso dalla brama della prevaricazione cerca in tutti i modi di convincere i potenziali seguaci che vi sono nemici da combattere, che sono sempre gli infedeli, quelli con la pelle diversa, quelli di un altro paese...

Alberto Cavallo

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