Prima di parlare del monoteismo dobbiamo definirlo, per evitare che
il nostro discorso cada fin dall'inizio nella confusione linguistica
che è uno dei principali motivi di errore in filosofia.
Il termine monoteismo di per sé, etimologicamente,
indica la
credenza in un unico dio, in quanto contrapposta all'ateismo, che non
ammette nessun dio, ed al politeismo, che ammette una pluralità
di dei. Il monoteismo di cui andremo a trattare non è
però inteso semplicemente in questo modo. Qualunque discussione
sulla divinità deve infatti riferirsi ad una concezione definita
di essa. Non è sufficiente affermare la credenza in un solo dio,
occorre che egli sia definito in modo che la credenza abbia un
contenuto e non sia una semplice affermazione di principio, il cui
vuoto si può riempire a proprio piacimento in ciascuna occasione.
Il monoteismo di cui qui parliamo è quello
giudaico-cristiano-mussulmano, data la sua strabordante importanza nel
mondo. Suggerisco di chiamarlo monoteismo occidentale, per
differenziarlo dalle concezioni indiane ed orientali in generale, a cui
accenneremo più avanti.
Non dobbiamo scordare che le tre religioni citate hanno salde radici
comuni, benché le differenze siano importanti ed i
conflitti dovuti all'appartenenza all'una piuttosto che
all'altra abbiano segnato la storia dell'umanità con guerre e
stragi. Vorrei sottolineare che le autorità religiose di
tutt'e tre le fedi oggi negano la fondatezza dei conflitti tra di esse
e si
esprimono
costantemente a favore del dialogo, anche se in ciascun campo vi sono
estremisti che propagandano l'odio contro gli appartenenti agli altri
due, e nel passato vi sono stati incitamenti all'odio ed al conflitto
anche da parte di alte autorità religiose.
Non trascureremo le differenze, ma cominciamo col definire i punti
salienti del monoteismo occidentale.
Esso consiste nel credere, in merito alla divinità, che:
Il tema di questo paragrafo è la concezione di dio che hanno
i monoteisti. L'eterna domanda non sarà qui "dio esiste?" ma
"Dio esiste?", dove la maiuscola ha un peso importante. Infatti
la prima domanda ha poco senso: non si può parlare
dell'esistenza di qualcosa o qualcuno che non abbiamo definito. Qui si
parla del Dio dei monoteisti, come l'abbiamo definito sopra.
La prima osservazione si lega alla confutazione di una delle prove tradizionali dell'esistenza di Dio, la cosiddetta prova ontologica, inventata dal filosofo medievale Anselmo d'Aosta (XI secolo), secondo il quale la perfezione di Dio include necessariamente l'esistenza. Infatti, se concepissimo un essere uguale in tutte le proprietà a Dio ma non esistente, esso sarebbe inferiore ad un essere uguale ma che in più fosse esistente. Ora, siccome Dio è per definizione l'essere che ha tutte le qualità in misura somma, deve necessariamente avere l'esistenza. L'argomento è ingegnoso ma sbagliato, perché l'esistenza non è un predicato ma una quantificazione. Dire "X esiste" non significa niente se non definiamo X: una volta che X è definito, allora possiamo occuparci della sua eventuale esistenza. L'esistenza non modifica il concetto di X, ma semplicemente significa che si può trovare X in un certo ambito di realtà.
Come Kant nella Critica della ragion pura, facciamo un esempio
basato sul denaro. Posso definire la moneta da 2 euro e quella da 3
euro; in base alla definizione, la moneta da 3 vale più della
moneta da 2. Però non so se esistano: se vado a verificare,
scopro che la moneta da 2 esiste, quella da 3 no. La verifica non ha
niente a che vedere con il concetto di moneta da 2 o da 3, è
basata, nel nostro caso, sull'evidenza empirica. Chi conosce la logica
non ha bisogno di spiegazioni, perché sa che l'esistenza non
è un predicato, "X esiste" non è un'espressione logica
compiuta: qualunque proposizione di esistenza ha la forma "esiste X
tale che..." a cui seguono le proprietà che definiscono X.
Ma la definizione stessa di Dio data più sopra è in
sé problematica.
La proprietà dell'eternità (5) è in conflitto
con il ruolo di creatore (2), tanto per cominciare. Un essere eterno
è fuori dal tempo, non è soggetto a mutamento; ma l'atto
della creazione, com'è concepito dai monoteisti occidentali,
è un atto collocato nel tempo. Ora, l'autore che compie l'atto
si congiunge all'oggetto nell'istante temporale dell'azione, il che lo
colloca inevitabilmente nel tempo. Agostino sosteneva che non ci si
deve chiedere che cosa facesse Dio prima di creare il mondo,
perché il tempo fu creato col mondo stesso. Ma se anche
ammettessimo che il tempo possa avere un istante iniziale ed estendersi
indefinitamente in una sola direzione, questo non ci salverebbe dalla
contraddizione. Infatti l'istante zero della creazione è diverso
da ogni altro istante: è l'istante dell'atto creativo nel suo
compimento,
diverso da ogni istante successivo, in cui l'atto risulta compiuto.
Quindi Dio ha almeno due stati distinti: nell'atto di creare e dopo
aver creato, e così almeno per questo si colloca nel tempo. E'
sufficiente un unico mutamento per violare il principio
dell'eternità.
Per evitare la contraddizione si dovrebbe ammettere che la creazione
è continuamente in atto e non si colloca in un momento del
tempo, come fa notare il filosofo buddista Shantideva. Ma la concezione
del monoteismo parla chiaramente di una creazione collocata nel tempo e
non di un processo continuo. Quest'ultimo era invece accolto dai
neoplatonici, che parlavano di "emanazione" anziché di
creazione. L'emanazione, però, crea altre difficoltà,
perché non salva la volontà (7) né le altre
proprietà personali di Dio. Un
dio che produce il mondo per emanazione non crea volontariamente per
sua
scelta, ma perché emanare la realtà è parte della
sua stessa natura. Inoltre ha poco senso parlare di sua bontà e
misericordia, piuttosto che giustizia. Non per nulla il neoplatonismo
risulta inconciliabile col
monoteismo occidentale, sebbene tracce di esso compaiano nei luoghi
più inaspettati. L'introduzione del vangelo secondo Giovanni, ad
esempio, suona fortemente neoplatonica: quando afferma che "all'inizio
era il logos, ed il logos era presso Dio ed il logos
era Dio", sembra riferirsi al primo gradino dell'emanazione, costituito
appunto dal logos, la manifestazione di Dio come ragione
discorsiva.
Restando sul tema della creazione, notiamo che una delle prove
classiche dell'esistenza di Dio è quella della causa prima:
l'universo che conosciamo deve avere una causa prima, il creatore, per
evitare un
regresso all'infinito. Ma questa prova va incontro ad almeno due
difficoltà: si può applicare la categoria di causa
soltanto ad oggetti empirici, applicarla ad un ente trascendente
è inammissibile (obiezione di Kant); inoltre il regresso
all'infinito delle cause non comporta contraddizione.
Noi ci serviamo della categoria di causa per interpretare il mondo
fenomenico, collegando gli eventi empirici tra loro. La valida
applicazione della categoria richiede che si riferisca ad oggetti
sperimentabili. Dato che Dio non fa parte del mondo empirico (3), non
possiamo assumerlo come causa di alcun fenomeno.
Possiamo tentare di dire che Dio è l'insieme totale delle
forze naturali che producono il mondo fenomenico. Ma allora non
parliamo di Dio, bensì di un dio immanente coincidente con la
natura - una questione di nomi, come dice Shantideva, abbiamo inventato
un nuovo nome per la natura, ma non abbiamo trovato Dio.
Ritenere che una catena causale debba avere un inizio, inoltre,
è una petizione di principio, non deriva da necessità
logica. Questa posizione si origina dalla negazione dell'infinito
attuale propria di una parte della tradizione filosofica occidentale. I
buddisti, ad
esempio, non vi trovano alcuna difficoltà. I matematici usano da
sempre concetti come la retta, che non ha inizio né fine.
Certamente, ci sono casi in cui il regresso all'infinito non è
accettabile, ma a ben guardare sono quei casi in cui nemmeno il primo
passo è valido. Una volta accettato il primo passo e la regola
del successivo, l'infinito si attua di fronte a noi senza
contraddizione. Consideriamo i numeri relativi: una volta accettata
l'esistenza di -1 come predecessore dello zero, si apre l'infinito dei
numeri negativi: lo zero ha infiniti predecessori. Si tratta di
un'applicazione del principio di induzione matematica esplicitato da
Peano per assiomatizzare i numeri interi. Esso consente di costruire un
insieme infinito a partire da un primo elemento e da una regola
applicabile iterativamente. Per quanto riguarda la sequenza causale,
è come dire che il presente è il punto di partenza e le
sue cause dirette il predecessore. Non vi è nulla di illogico
nel dire che ciascun predecessore ne ha un altro a sua volta, sebbene
questo non dimostri che lo abbia davvero dal punto di vista empirico.
Non potremo mai avere evidenza empirica in merito all'origine
dell'universo. La teoria del Big Bang non deve ingannarci: essa
riguarda l'inizio di questo particolare universo, ma non implica che il
Big Bang sia l'origine del Tutto: si tratta soltanto del punto
più antico a cui si possa risalire con l'indagine fisica. La
maggior parte delle teorie prevede che ci sia stato altro, in
precedenza; in ogni caso si tratta di un campo di indagine aperto.
Un argomento ingenuo ma molto spesso addotto dai fedeli delle
diverse
religioni è quello dell'ordine naturale. Si dice che il
mondo è troppo ben organizzato ed ordinato per non essere il
prodotto di un'intelligenza creatrice. Se guardiamo bene, però,
è anche possibile vedere il mondo come un caos sede di
ogni bruttura e di ogni male... sono considerazioni soggettive che non
provano nulla. E' il nostro intelletto che per sua natura cerca
l'ordine e lo vede in ogni luogo, allo scopo di dare un'interpretazione
del mondo su cui basare l'azione: notiamo le regolarità e
scartiamo le irregolarità perché questo è un buon
metodo operativo. Ma le regolarità che vediamo derivano
dall'applicazione delle nostre facoltà intellettive al mondo,
non sono intrinseche al mondo stesso. E' chiaro che il mondo deve
essere tale da consentire l'efficace applicazione delle nostre regole,
ma sarebbe stupefacente il contrario, visto che noi stessi siamo parte
di questo mondo.
Pensiamo poi all'imperfezione, anziché alla perfezione, di
noi stessi: i nostri corpi sono costruiti in modo casuale ed incongruo,
dal fatto che i canali dell'aria e del cibo si incrociano in gola
causando il rischio del soffocamento da cibo alla struttura fragile
della nostra colonna vertebrale, che darebbe meno problemi se non
stessimo eretti ma andassimo a quattro gambe come tutti i mammiferi di
buon senso, all'esistenza di organi inutili come l'appendice o i
capezzoli dei maschi. Ci sono molte prove che non siamo il risultato di
una concezione razionale
complessiva ma di un processo complicato e privo di un filo logico
coerente.
Un potente argomento contro l'esistenza di Dio è che nel
mondo vi sia il male. Questo è assai difficile da spiegare se si
tratta di un mondo creato da un dio benevolente (8) ed onnipotente (4).
La sofferenza di esseri innocenti non sembra conciliabile con
l'esistenza di Dio, buono e capace di fare ogni cosa. Perché non
protegge
almeno gli innocenti? Possiamo infatti concepire che taluni soffrano
per punizione (9), ma non si comprende come possa Dio ammettere casi
estremi che possono andare dalla morte di un bambino per cancro ai
crimini dei nazisti. Questo è chiamato il problema della
teodicea, e rappresenta una difficoltà gravissima per il
monoteismo.
La giustificazione monoteista dell'esistenza del male è che
esso sia necessario per darci la libertà: per impedirci di
compiere il male Dio dovrebbe togliercela, ma non lo fa perché
preferisce lasciarci liberi. Ma i problemi qui si allargano
anziché semplificarsi. Intanto, lasciare la libertà di
commettere anche il male è un conto, permettere la sofferenza
degli innocenti senza intervenire è un altro, tanto più
che la maggioranza dei monoteisti crede che possano avvenire i
miracoli, cioè gli interventi divini nel mondo anche contro il
normale procedere dei fenomeni. In molti casi la sofferenza degli
innocenti è dovuta a disastri naturali: va bene la
libertà dell'uomo, ma perché i terremoti? Hanno diritto
alla libertà anch'essi?
Affermare che esiste un principio maligno che agisce in
senso opposto a Dio equivale a costruire non un monoteismo ma un
dualismo ancor più contraddittorio. Intanto, equivarrebbe a
negare senza mezzi termini l'onnipotenza e la perfezione di Dio. Se
possiamo capire in qualche modo che Dio lasci a ciascuno la
possibilità di agire liberamente, quindi anche male, il fatto
che lasci agire un essere maligno ma in qualche modo eterno egli
stesso, che ha per scopo la diffusione del male nell'universo, è
assolutamente inconcepibile, a meno che quell'essere non sia pari a
lui. Ma due esseri onnipotenti non possono esistere simultaneamente,
perché se non altro si limiterebbero a vicenda. Il Diavolo non
può quindi esistere, o se esiste è già incatenato
negli inferi... e allora è come se non esistesse.
Che Dio non intervenga per lasciarci la libertà è
problematico anche per altri aspetti. Infatti molti fedeli credono, e
la chiesa cattolica sostiene e
considera indispensabile, ad esempio per le cause dei santi, che
avvengano miracoli. Ma perché a volte avvengono ed a volte no?
Un intervento avulso dal normale ordine delle cose, il deus ex
machina, può risolvere una situazione senza violare il
principio generale della libertà. Ma nella maggior parte dei
casi non avviene. I miracoli rimangono per consenso di tutti eventi
molto rari, anche per chi crede in essi. Ma la loro rarità
contraddice la benevolenza divina: perché Dio la maggior parte
delle volte non interviene, ma in qualche caso lo fa? Questo è
il comportamento che ci si attende da un dio del politeismo, propenso
al capriccio, non dal Dio perfetto!
Recentemente il papa ha dichiarato in modo inequivocabile che Dio
conosce ogni dettaglio della nostra vita fin dal momento del nostro
concepimento. L'argomento serviva a proposito della discussione sulla
veste giuridica dell'embrione. Ma Benedetto XVI è un teologo e
non manca di mostrarlo. Ha spiegato che ogni dettaglio della nostra
esistenza è noto a Dio già al momento del concepimento,
per cui ogni embrione ha in sé un'intera esistenza umana
perfettamente definita.
Certo l'onniscienza di Dio comporta anche questo. Mi fa piacere che un'autorità religiosa così importante abbia ritenuto necessario affermarlo chiaramente in pubblico. Ma a questo punto che libertà ci resta? Se l'onniscienza di Dio gli consente di sapere in anticipo che cosa faremo, siamo veramente liberi? Se il tutto, nella sua completa estensione spaziale e temporale è presente a Dio nella sua eternità, allora la nostra vita non è forse una pura illusione, un film che Dio proietta per suo diletto ma che già esiste per intero sulla pellicola fin dall'inizio? Questo annulla la nostra libertà molto più radicalmente di eventuali interventi diretti a rimedio del male.
Non si sfugge a questo argomento: se il minimo dettaglio della
nostra vita mutasse, insorgerebbe una
contraddizione. Siamo predestinati nel minimo dettaglio delle nostre
esistenze, il tempo è solamente un'illusione. Noi crediamo di
svilupparci, di maturare, di andare incontro ad eventi mutevoli nella
vita, ma nell'eternità tutto è già certo ed
immutabile. Si aggiunge che Dio è responsabile di tutto il
male che
vi è nel mondo, perché l'ha creato lui e sapeva fin
dall'inizio che
cosa sarebbe successo. Questo non contiene contraddizioni in merito
all'esistenza (1), all'eternità (5) ed all'onniscienza (4), ma
non permette di conciliare la creazione (2) con la bontà e
la misercordia (8).
Dio non può
essere considerato buono e misericordioso se conosce ogni dettaglio
della creazione che egli stesso ha compiuto, dobbiamo ritenerlo
indifferente nella maniera più assoluta. Non ci ha dato alcuna
libertà, ma ci ha predestinati ad una data sorte buona o cattiva
in modo inderogabile.
L'onniscienza vanifica dunque l'argomento della libertà usato
per giustificare l'esistenza del male e pone in dubbio la natura stessa
della creazione. Però intravediamo una soluzione al problema del
tempo: se il tempo è pura illusione, allora salviamo
l'immutabilità di Dio. Ma se è così, allora
l'universo è coeterno a Dio e la creazione intesa come
atto non ha mai avuto luogo.
La cosiddetta "volontà di Dio" costituisce un altro grave
problema. Un essere eterno ed onnipotente può volere qualcosa?
La volontà ha a che fare con l'azione, e l'azione col tempo - un
essere eterno e perfetto non è nel tempo, per lui non si
può parlare di volontà ma solo di atto. La cosa si spiega
attribuendo alla volontà di Dio la coincidenza con la sua
realizzazione. Questo però equivale a cambiare il significato
della parola, che viene ad indicare qualcosa di sostanzialmente diverso
da ciò che noi intendiamo comunemente come volontà. Si
tratterebbe di una metafora, carica di
portati emotivi ma senza potere esplicativo. Dobbiamo
concludere che l'applicazione del termine "volontà" a Dio
è inadeguato e fuorviante. Come poi si possa affermare che
accadono cose "contro la volontà di Dio" non è spiegabile
logicamente. Dovremmo ritenere che Dio vuole anche cose che non
accadono, il che sarebbe una contraddizione patente - in conclusione
possiamo soltanto parlare di metafore o
accettare
l'illogicità dei monoteisti. Se la volontà di Dio
coincide con l'atto, allora tutto ciò che accade è per
volontà sua, quindo non ha alcun senso ordinare a qualcuno di
fare qualcosa perché "Dio lo vuole": se davvero Dio lo vuole,
quella cosa accadrà e basta.
La bontà e misericordia divine sono problematiche anche in se
stesse. Dobbiamo chiederci quale senso dare alle stesse parole che
usiamo: come si concilia la misericordia con la perfezione e con
l'atteggiamento punitivo che si attribuisce a Dio? Se è
misericordioso come può imporre punizioni ad esseri imperfetti
nati così per sua volontà, per loro natura incapaci di
perfezione? Ancor più, la bontà e la misericordia,
così come la giustizia, richiedono che Dio consideri il mondo
fenomenico nel suo divenire temporale, si cali in esso. Se Dio non si
calasse nel mondo, bontà e giustizia dovrebbero essere
realizzate nella struttura del mondo stesso, che dovrebbe essere un
meccanismo perfetto oltre che totalmente determinato. Abbiamo visto
più sopra che Dio conosce esattamente tutto della nostra
esistenza fin dall'inizio - ma allora non c'è nulla in cui
calarsi.
I cristiani diranno che
appunto per calarsi nel mondo Dio si è fatto uomo in Cristo. Ne
parleremo
di nuovo un po' più avanti. Qui basta dire che con la
definizione che
abbiamo dato di Dio la sua incarnazione in un uomo è totalmente
illogica, come sostengono del resto ebrei e mussulmani. Si tratta di
una
concezione mistico/magica che non si può affrontare con la
ragione. Ma la ragione è tutto ciò che abbiamo. Se
decidiamo di credere alle assurdità, come possiamo scegliere
quali sono le
assurdità in cui si deve credere tra tutte le assurdità
che si dicono e si riportano? Rispondere che è scritto in un
libro non
funziona: a quale libro dobbiamo credere? Rispondere che dobbiamo usare
come criterio i miracoli equivale a dire che dobbiamo credere a fatti
assurdi (i miracoli) per giustificare credenze assurde... e di nuovo
come possiamo distinguere i miracoli veri da quelli falsi, e quelli
buoni da quelli maligni?
Queste difficoltà che abbiamo citato si riferiscono al
concetto di Dio come persona. Attribuendogli volontà,
bontà, misericordia, giustizia i monoteisti attribuiscono a Dio
una personalità, che risulta inconciliabile con altri suoi
attributi, soprattutto l'eternità e la perfezione. La
personalità esiste se si sviluppa nel tempo, in quanto pensieri,
volizioni, atteggiamenti mentali ne sono parte indispensabile, e sono
inevitabilmente sviluppati nel tempo. Il tempo è il presupposto
di qualunque attività mentale, ed una persona senza
attività mentale non può esistere, non come persona
almeno. Una persona senza tempo è come la musica su un disco
senza il giradischi. Il Dio perfetto ed eterno non sembra possa essere
una persona, perché in qualche modo una persona deve avere
pensieri,
ed i pensieri per loro natura sono nel tempo.
In conclusione, la definizione di Dio che abbiamo trovato è incoerente. Il contrasto nasce principalmente tra quelle parti della definizione che fanno riferimento all'etermità e perfezione e quelle che implicano la personalità. Non è un caso: infatti quella definizione sintetizza una parte di teologia razionale di origine puramente filosofica con una visione della divinità che proviene dal culto. Possiamo provare ad abbandonare alcuni punti della definizione e vedere che cosa ne risulta.
E' interessante notare come il monoteismo non sia monistico. Esso
riconosce due entità ben distinte: Dio ed il mondo. Questo
però genera, come abbiamo visto, notevoli difficoltà
logiche.
Una concezione che può sfuggire a tali difficoltà
è quella per cui il dio è immanente
e coincidente con la totalità di ciò che è
(veramente, non di ciò che appare). Non crea nulla,
perché col
suo stesso essere fa essere il mondo. Quest'ultimo può essere
concepito
come una sua manifestazione, oppure come una pura illusione. E' una
categoria generale di teorie metafisiche che possiamo accomunare sotto
la definizione di non-dualistiche, contrapposte al monoteismo
occidentale che invece è rigorosamente dualistico (Dio separato
dal mondo).
Una volta adottata questa concezione non dualistica, rimane la
scelta tra le sue diverse formulazioni concepite dai filosofi sia
occidentali sia orientali. Forse la forma più elaborata e
raffinata è quella dell'induismo di corrente vedanta, che trova
le sue radici già nelle Upanishad. Nella Chandogya Upanishad
(sesto prapathaka) si trova ripetuto più volte il famoso
passaggio:
"Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l'universo è
costituito di essa, essa è la vera realtà, essa è
l'Atman. Essa sei tu, o Svetaketu".
Secondo la dottrina vedantica, l'unica realtà è il
brahman (sostantivo neutro), che nella Chandogya è
chiamato
anche semplicemente Sat, cioè Essere. Si tratta di un
principio
assoluto non personale ma appartenente alla sfera dello spirito,
mentre la materia è pura illusione, così come l'individuo
stesso. L'unica realtà dell'individuo è il suo atman,
che
non è individuale ma coincidente col brahman. La natura
dell'individuo e del mondo empirico è spiegata con una
costruzione sistematica complessa ed articolata, che non tratteremo
certo qui. In questa costruzione c'è anche posto per un
Dio persona, Ishvara, che però non è assoluto proprio in
quanto è personificato. Il primo passo verso il mondo
fenomenico si compie quando l'atman prende coscienza e comincia ad
avere desideri, diventando così persona. C'è posto per la
creazione, che
è opera di un dio inferiore, Brahma, a sua volta manifestazione
(murti) di Ishvara. Ci sono poi perfino le incarnazioni o discese
(avatara) della divinità nel mondo umano, tra le quali le
più
importanti sono Rama e Krishna. Ciò che è assoluto ed
eterno è il brahman, la personalità viene dopo, la
creazione ancora dopo, il male è frutto di pura illusione. Ma di
tutta la costruzione il punto fondamentale è il non-dualismo
(advaita). Al di là dell'abbondantissima coloritura mitica, il
vedanta ha una solida base filosofica, basata sulla tradizione della
logica indiana.
In occidente il primo filosofo a cui si pensa, tra i monisti,
è Baruch Spinoza. Spinoza procede con "metodo geometrico" a
forza di dimostrazioni arrivando all'unicità della sostanza e
quindi alla coincidenza di dio con tutto ciò che esiste. Gli
individui non sono sostanze ma soltanto modi dell'unica sostanza, che
è dio. Questi non ha volontà ed intelletto come li
intendiamo comunemente, non è dunque persona, ma fondamento
impersonale assoluto ed eterno di tutto ciò che è.
Spinoza dimostra abilmente la coerenza logica
dell'immanentismo, anche se non dimostra la sua validità in
assoluto. Qualunque argomentazione logica è valida tanto quanto
i suoi assiomi - e questi sono arbitrari. In ogni teoria basata sulla
logica, infatti, devono esistere proposizioni non dimostrabili, che si
adottano come punti di partenza. Tramite il ragionamento deduttivo
possiamo arrivare a dimostrare eventualmente l'incoerenza di un sistema
di assiomi, ma non la sua necessità. E' difficile però
negare che, sulla base delle definizioni tradizionali di sostanza,
eternità e così via, la soluzione più coerente sia
quella di Spinoza.
L'immanentismo, nelle sue varie forme (tra cui l'hegelismo e perfino
il marxismo, che ne è una versione materialistica) è
attraente appunto per la sua coerenza. Esistono correnti, nell'ambito
delle tre
religioni monoteistiche, in cui si nota la tendenza all'abbandono del
dualismo: si tratta soprattutto dei mistici. La loro visione della
comunione con Dio li pone sulla strada del monismo, destando i giusti
sospetti del clero dualista.
La concezione non dualista finisce per essere ancor più
decisamente deterministica del monoteismo dualista. Se vi è un
solo Essere, per di più perfetto, allora tutto è
determinato e la varietà del mondo fenomenico è
illusoria. All'individuo non resta che seguire la via dell'unione col
tutto.
Vorrei chiarire che l'onniscienza non è necessaria per un
creatore, neppure se il mondo creato è basato su regole
deterministiche. Nel momento in cui creiamo (anche sul piano più
modesto in cui lo può fare l'uomo) un sistema pur
deterministico, in quanto basato su regole inderogabili ad ogni passo
della sua evoluzione, non necessariamente possiamo prevedere quale
sarà il suo sviluppo futuro. Per chiarire questo punto molto
difficile faccio l'esempio di un programma di calcolatore per il gioco
degli scacchi. Il programmatore che lo ha scritto, quindi l'ha creato e
ne conosce ogni dettaglio di funzionamento, può essere battuto
dal programma stesso nel gioco, perché non può prevederne
le mosse. Infatti la scrittura di un programma significa scrivere
regole di funzionamento, che di per sé sono inderogabili. Ma
l'effettivo svilupparsi di tali regole nel comportamento del programma
non è predeterminato, perché dipende dall'evolversi delle
situazioni: ad ogni situazione il sistema risponde tramite
un'elaborazione che segue le regole imposte, ma non può essere
prevista se non applicando quelle stesse regole, cioè facendo
funzionare il programma stesso! Una piccola variazione all'inizio della
partita aprirà un universo di possibili sviluppi del gioco, in
cui il programma si muoverà in base a come è stato
costruito. Se però, come accade già nel caso del nostro
esempio, si tratta di un programma complesso, il risultato
dell'effettiva applicazione di queste regole non è ricostruibile
in altro modo che applicandole ed osservando quello che accade.
La comprensione di questo ragionamento è facile per chi di
mestiere fa il programmatore e si scontra quotidianamente con programmi
che non fanno quello che dovrebbero, cosa che sembrerà strana se
si pensa che un calcolatore non fa altro che applicare ciecamente
regole basate su un linguaggio logico. Eppure tutti sappiamo quanto
siano imprevedibili i computer!
La matematica moderna abbonda di studi sul caos deterministico:
l'applicazione ripetuta di regole o formule semplicissime e
assolutamente determinate produce sistemi la cui evoluzione è
estremamente complessa ed imprevedibile. Qui non si tratta del
funzionamento di programmi complessi, come quelli che giocano a
scacchi, ma della semplice iterazione di formule matematiche molto
semplici. In questo caso la scrittura di un programma di calcolatore
che ne produca i risultati è ingannevolmente semplice; eppure il
risultato è di enorme ed imprevedibile complessità.
Per fortuna esiste l'evidenza empirica che la fisica
fondamentale non è deterministica: non vi è alcun modo di
conoscere nei
minimi dettagli la realtà fisica (principio di Heisenberg) e non
si
possono fare previsioni assolute sul risultato di un esperimento
quantistico.
E'
possibile però che esista un dio creatore di altro tipo,
imperfetto e calato
egli stesso
nel tempo - se così fosse ogni contraddizione sparirebbe. Un
creatore buono ma imperfetto spiegherebbe il mondo com'è, ma non
siamo in grado di dire se egli ci sia o no. In ogni caso, sarebbe una
questione empirica, perché tale dio sarebbe un essere fenomenico
come noi, sebbene molto più grande e potente.
Questa concezione di un creatore imperfetto si trova in Platone, nel
Timeo. Come abbiamo visto sopra, anche gli induisti credono che la
creazione sia opera di un dio inferiore, sia pure in un contesto
diverso.
Siamo tutti abituati a sentire confutazioni del politeismo. Ci viene
detto che Dio è uno, e non può essere diversamente
perché l'esistenza di più di un essere perfetto non
è possibile. Ma la perfezione di un essere dotato di
personalità e creatore del mondo, come abbiamo visto, determina
essa stessa incoerenze logiche. Del resto, gli dei del politeismo non
sono affatto perfetti né pretendono di esserlo. Sono esseri
immortali nell'ambito del mondo, ma non necessariamente in assoluto: in
genere si ammette che alla fine del mondo in cui viviamo gli dei stessi
muoiano per poi eventualmente rinascere. Questo mito esiste nella
tradizione dell'Europa del nord (il crepuscolo degli dei) come in
quella dell'India (il crepuscolo di Brahma). I molti dei sono
dotati di grandi poteri, ma non di onnipotenza. Non vi è alcun
motivo logico per negarne l'esistenza, a parte l'assenza di prove a
favore, naturalmente.
L'induismo vedanta riesce a sintetizzare il politeismo col
monoteismo e con l'immanentismo non dualistico con una teologia
complessa e raffinata. Ma perfino il cristianesimo contiene elementi di
politeismo: la dottrina della trinità infiltra un elemento di
molteplicità nel divino, mentre la molteplicità delle
figure oggetto di venerazione da parte dei cattolici introduce
ulteriori elementi di pluralismo soprattutto nel culto.
Non vi è motivo logico per non credere che vi sia una
molteplicità di potenze divine, una o più delle quali
addirittura possono aver creato il mondo. Il principio assoluto
unificante dell'universo può invece non essere una persona ma
appunto soltanto un principio. Elementi di questa concezione sono
presenti addirittura nel credo niceno: tutti i cattolici nella Messa
affermano senza pensarci troppo che il Padre ha creato il cielo e la
terra "per mezzo" del Figlio, e peraltro quando pregano si rivolgono
soprattutto alla Madonna ed ai santi, qualche volta a Gesù,
praticamente mai a Dio. Esattamente come gli indù che pregano
molto spesso Rama oppure Krishna, svariate volte Shiva o Vishnu, molto
raramente Brahma e mai Ishvara o
tantomeno il brahman, al quale rivolgere preghiere non avrebbe proprio
senso.
La Kabbalah ebraica introduce una gerarchia di entità
discendenti da Dio, di cui sono manifestazioni(!): le dieci Sefirot.
L'ultima di esse, Malkut, coincide con la Shekinà, la presenza
di Dio nel mondo, che tuttavia è una manifestazione di Dio
stesso. Tutto questo per superare le contraddizioni che abbiamo visto,
che impedirebbero di giustificare razionalmente la creazione. A Dio non
si attribuisce alcuna azione, sono le Sefirot che agiscono.
Soltanto i mussulmani sono, per quanto è di mia conoscenza,
immuni da queste concessioni, anche se i
Sufi prendono la via dell'unione mistica con Dio, via che rasenta, come
abbiamo visto, l'immanentismo.
Immanuel Kant ribaltò la tradizionale sequenza tra religione
e morale, il cui esempio si trova nella Bibbia, dove Mosè riceve
da Dio le tavole della legge. Per lui è la legge morale che si
impone a noi di per se stessa, e da essa risaliamo a postulare
l'esistenza di Dio.
La legge morale secondo Kant è una sola ed è puramente
formale (l'imperativo categorico): non indica un contenuto specifico ma
il modo in cui si deve determinare la massima dell'azione. Questa deve
essere tale da poter valere in ogni tempo come principio di una
legislazione universale. La ragione ci impone l'universalità
della massima, che altrimenti sarebbe particolare e individuale, quindi
irrazionale e necessariamente dettata dalle inclinazioni, dai desideri,
e non da una legge. Essa è presente in tutti gli uomini e si
impone da sé, senza la necessità di una dettatura
esterna. Anzi, in base ad essa noi giudichiamo se le leggi specifiche
che altri ci propongono sono morali oppure no. Nel mio scritto
intitolato Etica minima ho cercato di
spiegare una concezione della morale di questo tipo, non fondata su
leggi rivelate ma su principi universali, rifacendomi anche
particolarmente a Kant. Rinvio pertanto ad esso per l'approfondimento
del tema.
Qui ci interessa un altro aspetto, che peraltro ho trattato in Etica e metafisica: dalla legge
morale possiamo risalire al postulato dell'esistenza di Dio. Infatti
nasce inevitabile il conflitto tra rispetto della legge morale e
conseguimento della felicità: secondo Kant tra i due c'è
una contraddizione, che nella Dialettica della Ragion Pratica egli
chiama antinomia della ragion pratica,
per cui chi si comporta moralmente si rende infelice, mentre chi cerca
la felicità segue le inclinazioni e va contro la morale.
Siccome, però, tutti riconosciamo che soltanto l'individuo
morale è meritevole di felicità, occorre trovare il modo
in cui si possa realizzare ciò che il filosofo definisce come sommo
bene (l'unione di virtù e felicità), senza che si
violino
i principi etici che abbiamo enunciato. La soluzione di Kant è
che occorre postulare da un lato l'immortalità, per consentire
ad ogni essere razionale finito di avvicinarsi progressivamente alla
santità, quella condizione in cui si agisce moralmente in modo
spontaneo avendo superato tutte le inclinazioni, dall'altro l'esistenza
di un legislatore supremo che attivamente ordini il mondo in modo che
il sommo bene sia conseguibile.
Che il creatore debba essere Dio Kant lo deduce dalla natura
razionale della legge morale, che si appella alla ragione ed alla
soggettività razionale; pertanto soltanto un soggetto razionale,
quindi un dio personale, può esserne l'autore. Infatti il
soggetto razionale è noumeno e non fenomeno, come Dio stesso.
Una prima osservazione riguarda la natura del dio postulabile in
base a questa linea di ragionamento. L'atto creativo non è
affatto richiesto: ciò che occorre è che la legge morale
abbia realtà (in senso noumenico), quindi che sussista un
principio universale assoluto, il quale ha natura di soggetto (il
soggetto assoluto, l'io
penso). Il principio noumenico che è il soggetto perfetto a
me
non sembra altro che il brahman del Vedanta. Stiamo infatti
parlando della soggettività assoluta, non dell'individuo
empirico. Dio non può essere persona nel senso dell'individuo
empirico, dunque deve essere principio non personale seppure soggettivo.
Nonostante lo sforzo di Kant per giustificare il cristianesimo su
base razionale, egli non fa altro che confermare il non dualismo. Il
principio razionale assoluto soggettivo non può creare ma si
limita ad essere. La presenza della legge morale in noi significa che
tale principio esiste in noi, così come in noi vi è il
soggetto pensante che non può essere oggetto di pensiero, l'"io
penso". Questa soggettività pensante è l'atman, che
coincide col brahman: questo sei tu. L'idealismo tedesco
sviluppò questa linea di pensiero fino all'Idea Assoluta di
Hegel.
Considerando la questione dell'immortalità dell'anima,
notiamo che secondo Kant deve essere concesso all'individuo un tempo
infinito per accostarsi alla santità, unica condizione per la
quale si può conseguire il sommo bene. Ma qui troviamo un errore
logico vero e proprio nel suo ragionamento. Egli insiste che non vi
può essere nel mondo alcuna connessione tra felicità e
virtù, ma parla di un progresso graduale dell'anima verso la
santità. Ora, se la felicità deve arrivare tutta insieme
quando si è santi, perché prima non è data
felicità per effetto della virtù, allora il progresso
graduale è negato. Kant però finisce per ammettere che la
felicità dell'uomo onesto è legata alla contentezza
di sé e non al conseguimento di vantaggi materiali. Quindi
il progresso morale dovrebbe consistere nel progressivo distacco dai
vantaggi materiali e nella sua sostituzione con la pace dell'animo e la
contentezza di sé. Ma Kant afferma che tale processo non si
può realizzare, perché l'uomo virtuoso è infelice
finché non riesce ad essere perfettamente morale.
Sarebbe però sufficiente ammettere che l'unica
felicità consiste appunto nel distacco dai vantaggi materiali e
nel conseguimento della pace dell'animo che si lega intrinsecamente
alla condotta virtuosa. Kant usa la parola felicità con due
significati: la realizzazione di desideri ed inclinazioni (1) e la pace
dell'animo (2). E' vero che l'uomo virtuoso (ma anche il non virtuoso)
non potrà mai ottenere la felicità (1), ma a lui non
dovrà importarne! Allora si capisce che il progresso morale
consiste nel distacco dalle inclinazioni cattive e dalla ricerca stessa
della felicità (1), per sostituirla con la ricerca della
felicità (2), che coincide con la ricerca della moralità.
Ci accorgiamo allora che la ricerca del progresso morale porta la
felicità (2) mentre l'uomo amorale cerca la felicità (1)
e alla fine sarà infelice, perché la felicità (1)
non è in realtà mai ottenibile da parte di nessuno, dato
che nel mondo fenomenico tutti prima o poi si scontrano con la dura
verità che è impossibile soddisfare tutti i propri
desideri e
sfuggire alla sofferenza ed alla morte.
In conclusione, l'antinomia della ragion pratica si risolve da
sé, in quanto dovuta ad un errore nella definizione della
felicità.
Qual è allora il ruolo del principio divino di cui parlavamo
prima? La radice dell'etica risulta essere nella corretta definizione
della felicità, come pace dell'animo e non come conseguimento di
utilità materiali. La pace dell'animo è una condizione
soggettiva, che si produce in chi segue il buon principio morale. Il
punto centrale diviene questo: il perseguire la legge morale porta come
effetto la felicità (2), che è l'unica vera
felicità. Questo non ha implicazioni metafisiche se non in
quanto impone di credere che la ragione è valida e che l'azione
buona produce un risultato buono, inteso come avvicinamento alla
felicità (2). Si tratta dunque della fiducia in una natura buona
che soggiace alle cose, senza che si possano fare affermazioni
specifiche su di essa. Ciascuno resta libero di darle il nome che vuole.
In piena contraddizione rispetto a Kant, mi sento di sostenere che
l'insegnamento della pace dell'animo come bene da ricercare sia
positiva e possa produrre azione morale, perché essa risveglia
nelle persone la facoltà, che come Kant stesso dice tutti hanno
in sé, di comprendere quale sia il bene e perseguirlo
sinceramente. Questo insegnamento è svincolato da qualunque
concezione teistica o non teistica, monoteistica o politeistica.
A margine, notiamo che è assolutamente vero quanto dice
Kant, che
soltanto chi agisce moralmente è libero: infatti chi persegue la
felicità (1) non fa che correre dietro a desideri ed
inclinazioni,
diventandone schiavo. Perseguire la felicità (2) invece
significa
cercare appunto di liberarsi dalla schiavitù, liberazione
possibile
soltanto se si segue il dettame della ragione, che ci impone di andare
oltre la nostra persona empirica per seguire principi generali. Ma
è
sbagliato che le inclinazioni buone siano irrilevanti: è la
nostra
ragione che ci insegna a discriminarle e ci consente anche di
utilizzarle come mezzi per combattere quelle cattive. Se siamo capaci
di distinguere ciò che nella sfera dei sentimenti e dei desideri
è
buono rispetto a ciò che è cattivo, è meritevole
farne uso, purché sia
un uso consapevole: resta vero che il comportamento buono è
veramente
tale se è consapevole e non dettato dal sentimento del momento,
ma
coltivare il sentimento buono fa parte della via del progresso morale,
anche se la piena moralità non si basa su sentimenti ed
inclinazioni
ma li supera tutti. In ogni caso, anche l'azione buona fatta per
inclinazione ha un suo valore, perché tende comunque a produrre
pace ed
equilibrio, altrimenti non sarebbe buona. Kant sbaglia nel volere il
tutto o nulla, nel negare la bontà parziale che è
così preziosa nella
ricerca del bene, per noi esseri imperfetti.
Il fanatismo, che oggi purtroppo miete molte vittime, è un
esempio di
come il male non nasca necessariamente dalla ricerca della
felicità
personale (materiale, felicità(1)). L'attentatore suicida fa del
male
prima di tutto a se stesso, non cerca sicuramente la felicità
personale
- o forse la cerca in una prossima esistenza dove ritiene di essere
ricompensato.
La metafisica è utile soltanto se rimane sul piano filosofico
e quindi del ragionamento; le costruzioni metafisiche basate su
principi autoritari sono invece altamente pericolose. Se riteniamo che
le regole di
comportamento provengano dall'esterno, da autorità superiori
più o meno divine, possiamo essere indotti a comportamenti
abnormi. Se infatti attribuiamo ad una certa formula un valore etico
assoluto, e poi troviamo un'autorità che asserendo di
interpretarla ci ordina di fare qualche cosa, eseguiremo l'ordine senza
discutere. L'autorità dogmatica potrà sempre, infatti,
accusarci di infedeltà o di eresia se cercassimo di sottrarci
all'obbedienza.
La discussione metafisica con cui ho cominciato questo scritto
serviva a mostrare che il monoteismo non si può basare sulla
ragione. Esso infatti si basa sulla credenza nell'Autorità di
Dio, dei testi sacri e delle gerarchie religiose. Questa
credenza è un pericolo per l'umanità, causa di infiniti
conflitti. Non si deve confondere la fede individuale con questo tipo
di credenza. I fedeli sinceri non badano troppo alla lettera del testo
sacro, semplicemente vi cercano conforto quando occorre. Un vero
credente può ammettere che vi sono elementi divini in
testi non considerati sacri, e viceversa ci sono parti del testo sacro
che è meglio non considerare, ed in generale che il testo sacro
non può essere sempre preso alla lettera. Riconoscerà che
il rapporto con Dio non è necessariamente di sottomissione, ma
prima di tutto anzi è di amore. L'importanza di questo elemento
è riconosciuta dai cattolici, che attraverso la loro ferrea
gerarchia riescono a tenere insieme elementi diversi e contraddittori.
I protestanti ed i mussulmani, invece, sottolineano molto più
decisamente l'obbedienza ed il rigore nel rispetto delle prescrizioni,
non avendo una gerarchia ben delineata ma soltanto una rete di scuole e
predicatori fortemente autonomi.
Il punto centrale che contraddistingue il monoteismo è dunque
la richiesta di obbedienza
assoluta ed incondizionata, che troviamo ad esempio nel decalogo
biblico (Esodo 20,4), in cui Dio si dichiara "geloso" e minaccia
punizioni per più generazioni, in contrapposizione alla proposta
aperta che troviamo ad esempio nel canone buddista (Anguttara-Nikaya
III - 65,14), in cui si chiede al discepolo di valutare personalmente
la validità dell'insegnamento e di seguirlo soltanto se è
intimamente convinto della sua validità.
Questo è il punto chiave che differenzia una visione del
mondo con potenzialità di fanatismo da una che non ne ha: il
ritenere che vi sia una fonte esterna ed imperscrutabile da cui vengono
comandi assoluti, piuttosto che affrontare ogni questione con le
proprie facoltà di giudizio. Possiamo esprimere in un
altro modo questo concetto: c'è chi vuole rimanere bambino tutta
la vita ed avere un Padre celeste, rappresentato qui sulla Terra da una
gerarchia religiosa, che gli dice che cosa è giusto e che cosa
è sbagliato, ed invece chi vuole diventare adulto ed assumersi
la responsabilità del proprio comportamento.
La caratteristica propria della religione monoteistica come si
è caratterizzata in Occidente si
trova in questo: che si pongono le regole nelle prescrizioni divine, di
un Dio che è Padre e dotato di assoluta autorità, che
parla a noi
tramite le parole scritte in un
libro, considerate
sacre, e soprattutto tramite l'interpretazione che
l'autorità religiosa ne dà. In questo modo ci si lega a
prescrizioni arbitrarie date come indiscutibili, aprendo la strada alla
possibilità del fanatismo. L'arbitrarietà è
appunto qui, e non nell'affidarsi alla naturale capacità di ogni
essere umano di ragionare e valutare. Perché i principi della
ragione sono universali, le parole dei libri no. Anche le religioni non
monoteistiche hanno libri sacri e prescrizioni, ma la loro natura
intrinsecamente pluralista ne limita l'influenza: se non si riconosce
un principio unico supremo è meno facile costruire un sistema di
dogmi da imporre. La differenza è soprattutto psicologica:
ognuno di
noi da bambino aveva i genitori, e soprattutto il padre, come
autorità
suprema a cui obbedire. Si cerca di utilizzare questo meccanismo
psicologico universale per mantenerci perennemente minorenni.
Se confrontiamo i testi sacri con le effettive prescrizioni delle
religioni organizzate, abbiamo poi una sorpresa: spesso non coincidono!
L'appello all'autorità è così forte che il fedele
neanche confronta quello che gli viene imposto con le parole
effettivamente contenute nel testo sacro. Del resto, ogni persona
sensata non può fare a meno di riconoscere che non si possono
prendere i libri sacri alla lettera, anche solo per il fatto che sono
testi antichi, che si riferiscono ad un contesto storico e sociale
completamente diverso dall'attuale. Tanto che periodicamente si hanno
tentativi di ritorno alla lettera
del testo, che sono causa di conflitti e di esplosioni di fanatismo,
dato che il
loro scopo è inattuabile e può solo tradursi in un
tentativo violento di far tornare la società indietro di secoli.
Tentativo destinato al fallimento, ma non senza sofferenze e traumi.
Laddove il monoteismo occidentale non ha potuto esercitare la sua
influenza, non vi sono conflitti a base religiosa. L'India conobbe le
guerre di religione soltanto con l'arrivo dei mussulmani, mentre i
paesi dell'estremo oriente sono da sempre multireligiosi. Addirittura
alcune persone si dichiarano simultaneamente appartenenti a più
religioni (molti giapponesi, ad esempio, sono nello stesso tempo
buddisti e scintoisti).
Oggi assistiamo nel mondo allo scontro tra il cristianesimo
fondamentalista degli Stati Uniti d'America, di cui è
espressione il presidente Bush, e l'islamismo estremista che ha le sue
basi in Arabia Saudita, Pakistan ed Egitto per i sunniti, in Iran per
gli sciiti. Si noti il paradosso per cui i paesi d'origine
dell'estremismo islamico sono considerati amici degli Stati Uniti, che
hanno invaso l'Iraq laico e l'Afghanistan che, prima dell'interferenza
dei talebani ispirata dal Pakistan, era prevalentemente caratterizzato
dal misticismo Sufi.
Il monoteismo attenuato
La chiesa cattolica, come abbiamo visto, si contraddistingue per un
forte autoritarismo gerarchico unito ad una sostanziale tolleranza non
dichiarata verso visioni del mondo di tipo diverso. Uno dei punti che
la contraddistinguono è il culto della Madre affiancato e spesso
prevalente rispetto a quello del Padre. Si tratta di un elemento
storicamente proveniente dalle religioni mediterranee precristiane, che
si basa su un altro risvolto della psicologia umana: il bambino non ha
soltanto il genitore maschio, ovviamente. La madre è colei che
esercita un influsso in genere molto più profondo e
significativo sui figli, non soltanto attraverso l'autorità ma
anzi principalmente attraverso la partecipazione affettiva. Assumendo
ad un alto ruolo cultuale la figura della Madonna, Madre di Dio, il
cattolicesimo utilizza un altro metodo di proseguimento della
minorità a vita del fedele, più benevolo e pacifico ma
anch'esso molto efficace, forse addirittura più efficace
dell'altro.
Per inciso, la stessa dizione "Madre di Dio" è sul piano
logico un'assurdità totale, la concezione di Dio dei monoteisti
non è conciliabile col fatto che abbia una madre... ovviamente
lo si dice perché Gesù è Dio e Maria sua madre in
termini corporei, senza implicazioni metafisiche. Le implicazioni sono
unicamente psicologiche! Per i fedeli, e soprattutto le fedeli, il
rango della Madonna è percepito come addirittura superiore, in
termini affettivi appunto e non teologici, a quello del Figlio.
Questo tipo di monoteismo parzialmente femminilizzato non si presta
alla produzione di guerrieri fanatici, perché si può
indurre ad uccidere in nome di Dio, ma non in nome di sua madre.
Perciò risulta meno utile ai fini del potere politico, mentre
è assai efficace nel preservare il potere puramente religioso.
In tempi come i nostri, in cui si dispone di armi e strumenti atti a
distruggere il mondo, una concezione religiosa autoritaria ma di tipo
materno anziché paterno è di per sé molto
più salutare. Il cattolicesimo odierno è radicalmente
contrario alle crociate e predica la pace e la convivenza amorevole.
Si capisce anzi perché le gerarchie maschili del
cattolicesimo si oppongano al sacerdozio femminile: in una religione in
cui l'elemento femminile è importante, le donne potrebbero
prendere il potere! Personalmente sarei felice di vedere una chiesa
cattolica sessualmente paritaria, potrebbe essere l'inizio di
un'evoluzione positiva per l'umanità intera, una forza di pace
straordinariamente potente.
Anche l'immanentismo può dare origine a concezioni
pericolose. Abbiamo visto che esso porta ad una concezione
deterministica in senso assoluto, per cui non esiste alcuna
libertà e ciò che accade coincide con ciò che deve
accadere. La svalutazione dell'individuo che risulta da una concezione
del mondo totalmente monistica si può tradurre in una forma
alternativa di autoritarismo, travestito di oggettività
razionale. Dovrebbe essere noto come l'hegelismo di destra e di
sinistra abbia contribuito all'origine dei due totalitarismi del
Novecento, quello nazifascista e quello comunista-stalinista. La
mancanza dell'appello ad un dio personale li ha resi però deboli
al confronto con le religioni monoteistiche: la forza della dogmatica
è molto
superiore se si può fare appello ad un'autorità
metafisica di tipo personale esterna al mondo. Viene a mancare un
elemento psicologico essenziale: lo sfruttamento dell'immagine
paterna come fonte di autorità, che fa leva su
predisposizioni psicologiche profondamente radicate negli esseri umani.
Il monismo induista è usato anche oggi come arma ideologica
contro il monoteismo mussulmano, nel subcontinente indiano. Il buddismo
è scomparso dall'India secoli fa, schiacciato tra indù e
mussulmani, non essendo per sua natura portato al conflitto. L'induismo
è così raffinato da mettere insieme monoteismo, monismo e
politeismo, soddisfacendo le esigenze di tutti: dalla
religiosità popolare alla filosofia al misticismo. La concezione
della reincarnazione ben si combina col sistema delle caste per creare
stabilità sociale su una base dogmatica metafisica. Abbiamo
quindi il caso di un monismo utilizzabile come strumento di potere.
La sua debolezza è dovuta alla mancanza di
universalità: il sistema delle caste ha senso soltanto tra gli
indù di nascita, perché tutti gli altri non essendo nati
indù non sono collocati in una casta... il che impedisce di dare
loro un ruolo gerarchico nella società.
La
turbolenza dei mussulmani è invece dovuta anche
all'egualitarismo, che li pone tutti (solo i maschi
naturalmente) come uguali davanti a Dio e quindi potenzialmente ribelli
all'autorità politica che non sia in grado di appoggiarsi a
quella religiosa. Gli indù invece sono persuasi ad accettare la
condizione in cui si trovano, inclusa quella dei fuori casta, chiamati
in occidente intoccabili. Questo spiega la straordinaria
immobilità dell'India in mezzo ai marosi della storia. Fa anche
capire perché un estremista indù uccise il Mahatma
Gandhi: egli voleva abolire il sistema delle caste, che è
fondamentale nella visione induista perché costituisce lo
strumento fondamentale del controllo sociale. Gandhi aveva una
concezione aperta della religione e cercava la conciliazione di tutte
le fedi. Purtroppo la sua opera non è stata sufficiente: come
tanti altri prima di lui, è stato messo sugli altari ma non
seguito nel suo vero insegnamento.
La religione laica del marxismo-leninismo ha avuto un certo
successo, ma ha dovuto ricreare la figura paterna in quella dei leader,
come Lenin, Stalin e Mao. Il culto della mummia di Lenin nel mausoleo
esprime chiaramente il tentativo di riprodurre forme tipiche del
monoteismo occidentale divinizzando il leader. Ma il comunismo rimane
un ideale puramente razionale e filosofico, e questo tipo di
sfruttamento religioso non ha attecchito a sufficienza: non era
possibile per una gerarchia dichiaratamente atea e materialista
smentirsi e dire che Lenin, Stalin e non so chi erano incarnazioni di
Dio! La potenza psicologica della figura divina era sfruttata solo
parzialmente.
Abbiamo visto come la concezione monoteistica occidentale, come l'abbiamo chiarificata all'inizio, presenti notevoli difficoltà logiche, tanto da non poter essere accettata nella forma in cui l'abbiamo definita inizialmente. Le concezioni alternative non inferiori ad esso, anzi spesso metafisicamente più coerenti, sono numerose, ad esempio abbiamo:
Se intraprendiamo dunque la via opposta, quella che parte dall'etica per arrivare alla metafisica, ci accorgiamo invece che possiamo costruire facilmente un credo minimo e semplice: se accettiamo che esista ed abbia un senso un principio etico, allora dobbiamo credere che vi sia un principio buono nell'universo, che rende conto della validità della ragione e della possibilità del bene. Partendo da una metafisica monoteistica, infatti, ci scontriamo con il paradosso della teodicea, che ci rende incomprensibile l'esistenza del male oppure ci nega la possibilità di ammettere che Dio sia buono. Se invece accettiamo che il punto di partenza sia la semplice ammissione che l'azione buona produce frutti buoni mentre l'azione cattiva produce frutti cattivi, non dobbiamo giustificare logicamente l'esistenza del male, ma soltanto avere fede nella possibilità del bene e nella validità di questo semplice principio. Si può affermare che questo rimane appunto un atto di fede, ma la sua semplicità ci consente di chiedere a chiunque di assumerlo almeno come ipotesi.
Nella discussione sull'esistenza di Dio abbiamo notato come la categoria di causa non sia applicabile fuori dell'ambito fenomenico. Anche in campo etico la stiamo applicando, quando parliamo dei frutti dell'azione, tant'è vero che i buddisti, a cui mi sto rifacendo, chiamano appunto principio della causa e dell'effetto la legge che abbiamo espresso sulla qualità morale dell'azione. Dobbiamo notare che c'è una sottile distinzione da fare: da un lato, stiamo effettivamente usando la categoria di causa, e non fuori luogo perché parliamo di fatti dell'esperienza, interiore piuttosto che esteriore; dall'altro, si tratta di qualcosa di diverso, in quanto è il risvolto morale dei fatti quello che consideriamo, e non il concatenarsi dei fenomeni. In ogni caso, tutto ciò che ci si chiede è di aver fiducia nella nostra naturale capacità di ragionare sul mondo, senza la quale cessa ogni discorso.
Abbiamo anche visto, discutendo l'argomento kantiano del sommo bene,
che in realtà occorre soltanto definire correttamente la
felicità per eliminare il paradosso per cui chi si comporta bene
spesso è infelice. L'infelicità dipende da una concezione
errata della felicità: possiamo imparare a liberarcene ed a
riconoscere che l'unica felicità è la pace interiore di
colui che compie il bene - felicità che non è intesa come
scopo ma come componente intrinseca del fare il bene.
La validità di questa concezione si può valutare, non
è necessario credervi ciecamente. Ma una volta che abbiamo
riconosciuto la verità del principio per cui il bene causa il
bene, possiamo anche dire che abbiamo acquisito la fede in un certo
qual
principio universale del bene. Non è necessaria metafisica per
questo, anzi la metafisica risulta dannosa, perché crea
inutile confusione e può indurre a concezioni malsane. Occorre
soltanto un'antimetafisica che neghi le sovrastrutture essenzialiste e
ce ne liberi.