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ETICA MINIMA



27 gennaio 2002

Indice


Estensione e limiti dell'etica

Questa breve trattazione sull'etica assume come premessa il testo sulla verità relativa ed assoluta, nel quale abbiamo affrontato nel modo più generale non solo il tema della gnoseologia ma anche il fondamento stesso dell'indagine filosofica, chiarendone i limiti. Abbiamo visto che la ragione umana non è in grado di attingere la verità assoluta che, dal nostro punto di vista di esseri limitati, non esiste sul piano puramente intellettuale ma soltanto su un piano spirituale. Abbiamo anche visto che la religione monoteistica occidentale mescola la spiritualità con la ragione creando un ibrido ancor più lontano dalla verità: la sua pretesa di enunciare verità incontrovertibili si fonda su basi ancor più fragili di quelle della filosofia, perché pretende di svilupparsi come conoscenza razionale a partire da premesse totalmente arbitrarie.

Cerchiamo ora di affrontare il tema dell'etica partendo dalle basi poste dall'indagine sulla verità. Un tentativo fallito in partenza, qualcuno potrebbe dire, visto che abbiamo dimostrato che qualunque base si possa trovare non sarà mai solida. Ed invece vale l'opposto: la caduta di ogni pretesa di assolutezza ci consente di affrontare il tema dell'agire umano in modo appunto totalmente umano. Abbiamo imparato che esistono molte vie che conducono alla conoscenza, che resterà sempre parziale e relativa, salvo il conseguimento puramente soggettivo della sapienza (prajña) che costituisce la vera essenza dell'esperienza religiosa, di qualsiasi religione.

Restando per un momento sul piano spirituale, notiamo che il raggiungimento della prajña consente anche il superamento dell'etica. Il sapiente non ha bisogno di regole o ragionamenti per sapere come comportarsi, la sua azione è "etica" di per sé. Questo non vuol dire che può fare qualsiasi cosa, al contrario significa che egli agisce in modo etico spontaneamente, con la naturalezza del respiro. Non proseguo il discorso in questa direzione per la sua estrema pericolosità: capita spesso che individui indegni si presentino come sapienti e pretendano di identificare il proprio arbitrio con la volontà di Dio. La condizione a cui ho accennato è stata raggiunta da pochissimi nella storia umana, ammesso che qualcuno l'abbia raggiunta, perché non possiamo averne certezza: ciò che sappiamo di queste persone consiste in testi di loro discepoli, più o meno pesantemente alterati nel corso del tempo. Nessuno di essi ha lasciato scritti, perché la sapienza non può essere contenuta in un testo scritto: il testo può soltanto essere un mezzo, un appoggio per chi soggettivamente è in grado di procedere lungo la Via. Le religioni storiche fondate sulle loro figure hanno una relazione assai indebolita, in quanto culti istituzionali, con la sapienza dei fondatori, anche se rimane possibile ritrovarne le tracce o incontrare con una certa frequenza, tra i loro discendenti spirituali, chi ha saputo proseguire sul cammino iniziale.

Quale può essere dunque l'ambito dell'etica, visto che non possiamo attingere l'assoluto e che la via della sapienza è legata ad un cammino spirituale personale?

L'etica ha due ambiti, a mio parere: uno è quello dei principi e delle regole fondamentali su cui può e deve convenire l'intera umanità, l'altro è quello orientato al perfezionamento della condizione umana.

L'etica riferita al primo ambito è l'etica di base o delle regole, che ho trattato in breve appunto in Etica e regole; riferita al secondo, è l'etica come metodo positivo di sviluppo morale e psicologico verso la sfera spirituale, l'etica della Via (o delle Vie), che potremmo chiamare etica anagogica.

Confrontando questi due piani, risulterà chiaro perché l'etica di base si traduce concretamente in poche regole espresse per lo più in forma di negazione: non uccidere, non rubare e così via. Dall'irraggiungibilità della verità assoluta discende anche l'impossibilità di trovare regole dettagliate di comportamento valide per tutti: qualunque regola di tal fatta risulterà arbitraria ed inadatta alla totalità degli individui e dei contesti sociali (intesi anche storicamente). Non è possibile, ad esempio, applicare alla lettera le indicazioni di un testo vecchio di tremila anni, come la Torah ebraica, alle situazioni di oggi. Questo non significa che la Torah non possa costituire un punto di partenza valido per sviluppare un'etica anagogica valida per i nostri tempi, ma sarà sempre necessaria un'attenta interpretazione che tenga conto delle insopprimibili differenze di contesto, oltre che del fatto che la stessa Torah non è un testo unitario e coerente, ma la sintesi di testi di vari autori interpolati e corretti più volte nel corso dei tempi.

Questo concetto è enunciato mirabilmente nel Vangelo: alla richiesta di quale sia il comandamento più grande, Gesù risponde di amare Dio ed amare il prossimo. Quanto all'applicazione delle leggi mosaiche, il Vangelo è ancora chiarissimo: in ogni occasione sottolinea che conta lo spirito e non la lettera della legge. Peccato che le chiese abbiano invece utilizzato il Vangelo stesso come fonte di prescrizioni minuziose, cavillando su frasi e parole e costruendo su di esse immensi edifici normativi. Gesù di Nazareth era con ogni probabilità un sapiente nel senso cha abbiamo cercato di spiegare più sopra, e sulla sua figura si sono costruiti monumenti istituzionali in cui egli, con ogni probabilità, non si riconoscerebbe. Le istituzioni religiose del suo tempo (il Sinedrio), ricordiamocene, lo fecero crocifiggere. Il sapiente non ha bisogno di regole, ma non commette arbitrio: possiamo riconoscere l'autenticità della sapienza da segni chiari, come appunto il lasciarsi mandare a morte, ingiustamente, senza opporre resistenza.

Non può esistere un'etica anagogica con validità universale, perché l'elevazione della persona umana si lega inscindibilmente alle condizioni del singolo e dell'ambiente in cui vive (contesto culturale, luogo e tempo). A persone, culture, epoche diverse si confanno metodi diversi. Si tratta comunque sempre di una via, un metodo (etimologicamente sinonimo, odos=via) piuttosto che di un insegnamento universale. Chi riesce a spogliarsi di ogni pregiudizio può riconoscere che molte vie diverse possono condurre alla meta, sebbene appaiano contraddittorie per certi aspetti. Tutte però rispondono a certi semplicissimi requisiti che costituiscono il risvolto positivo dell'etica minima, indici che ci consentono di distinguere in generale quali siano, invece, le vie negative.

Nel seguito di questa trattazione cercherò di mostrare come sulla base di considerazioni puramente razionali si possa costruire un'etica di base svincolata da qualsiasi contesto individuale e sociale e sottratta a qualsiasi relativismo, tale da fornirci una guida nel comportamento quotidiano ed infine nella ricerca di una via al perfezionamento, via che sarà invece personale e diversa per ciascuno, pur senza alcuna contraddizione con i principi fondamentali.

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Fondazione dell'etica delle regole

In Etica e regole ho scelto di presentare una serie di regole non inventata da me, ma copiata dalla tradizione spirituale nella quale ho trovato il massimo grado di apertura ed universalità: il buddhismo. A differenza dei comandamenti mosaici, non contiene nulla di specifico dal punto di vista religioso e sociale, sebbene le prescrizioni di base siano sostanzialmente le stesse. Mancano infatti i riferimenti alla divinità ed ai riti, mentre le indicazioni sull'uso della parola sono più approfondite, visto che non ci si limita a proibire la menzogna ma si aggiungono le proibizioni sul linguaggio violento, la calunnia, il mettere zizzania ed il parlare a vanvera. Mancano inoltre precetti del tipo "non desiderare", in quanto si limita la regola al comportamento esplicito. I precetti sul desiderio sarebbero già parte di un'etica anagogica: se io desidero ma non faccio nulla per conseguire l'oggetto del mio desiderio, ho un problema psicologico ma non creo problemi di convivenza.

Ma per fondare l'etica non possiamo adottare alcuna lista di regole formulate in anticipo, che sarebbe arbitraria. Dobbiamo invece trovare uno o più principi su cui necessariamente tutti si trovino d'accordo, principi dai quali si deriveranno tutte le regole pratiche.

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Deduzioni logiche: Il principio dell'universalità

Se una regola deve essere valida per tutti, deve considerare tutti allo stesso modo. Un'etica di base, valida per tutti, deve fondarsi sul principio che le regole impongono a tutti gli stessi doveri e conferiscono a tutti gli stessi diritti.

Quali sono dunque i principi di base dell'etica? E' uno solo, il principio dell'universalità o dell'equivalenza di tutti di fronte alla legge morale. Se ne possono dare diverse formulazioni, ciascuna delle quali evidenzia meglio taluni aspetti. Dal punto di vista logico sono tutte equivalenti, e se ne possono trovare altre ancora, che non sarebbero mai regole aggiuntive ma soltanto precisazioni. Vediamo di enunciarne alcune.

Le regole devono essere le stesse per tutti, quindi:

  1. ciò che si applica a me si deve poter applicare al mio prossimo;
  2. devo trattare ciascun essere umano sempre come persona e mai soltanto come cosa o strumento;
  3. i principi ispiratori delle mie azioni, considerati da un punto di vista generale, non devono mai suddividere la collettività in due gruppi: chi trae vantaggio e chi subisce.
  4. in forma più astratta, la massima che applico ora deve poter valere in ogni tempo come legge universale (legge morale di Kant).
La prima critica che viene mossa a questa impostazione è che può dare luogo a paradossi: è morale mangiare questa mela? soltanto se è accettabile che tutti (il mio prossimo) la mangino, il che è impossibile... Si tratta di non aver capito affatto il principio. Stiamo parlando di regole, non di azioni specifiche. L'universalità si giudica esprimendo in forma generale la massima dell'azione, o più semplicemente, quando è possibile,  provando a riconsiderare l'azione scambiando tra loro le persone coinvolte ("mettendosi nei panni degli altri").

Allora, si può obiettare, non si può condannare un delinquente, perché dal suo punto di vista egli non vuole essere condannato. Andiamo più a fondo in questo caso: nei panni della vittima si vuole che il delinquente sia condannato; dal punto di vista di chi non è coinvolto, parimenti si vuole che sia condannato, perché non possiamo lasciare in giro delinquenti impuniti che potrebbero fare altre vittime. Ciascun punto di vista deve essere però considerato nella buona fede della parte in causa, insomma quale sarebbe il suo punto di vista se a sua volta accettasse di considerare anche quelli degli altri. Il delinquente dovrà essere parzialmente deluso perché avrà la condanna, la vittima dovrà essere parzialmente delusa perché non avrà vendetta: la condanna dovrà essere tale da salvaguardare la vittima ed i terzi da nuovi crimini, risarcire il danno per quanto possibile, ma anche preservare l'umanità del delinquente. Quest'ultima condizione assicura il punto di vista del delinquente: se comprende la natura del suo gesto, accetterà una punizione purché sia giusta ed umana. Dire che il delinquente comprende la natura del suo gesto vuol dire che egli accetta di porsi nei panni della vittima, applicando il principio generale, quindi comprenderà di meritare una punizione e di dovere un risarcimento. E la vittima deve porsi nei panni del delinquente, rinunciando a propositi di vendetta. Se ne deduce immediatamente l'immoralità della pena di morte, che non risarcisce la vittima e tratta il delinquente come un oggetto, soddisfacendo una richiesta immorale di vendetta del sangue. Ed in questo non seguo Kant, che a mio parere si contraddice quando invece sostiene la pena di morte nella Metafisica dei costumi.

Per alleggerire il discorso, esaminiamo un'obiezione ben nota e alquanto buffa: per stabilire se è morale andare al ristorante X stasera alle otto, mi chiedo se è possibile che tutta l'umanità vada da X stasera alle otto, e vedo che è impossibile. La questione è mal posta: per giudicare se il furto è lecito o no, non mi chiedo se sia lecito che tutta l'umanità rubi la collana di perle di mia zia stanotte alle tre, ma se sia lecito che uno (qualsiasi) rubi un oggetto di un altro (qualsiasi). Dal fatto che non è lecito rubare deduco poi che non devo rubare la collana a mia zia. Per il ristorante, mi chiedo se sia lecito in generale andare a cena fuori. Questo significa che alcuni cucinano per sé, altri per gli altri, e crea una disparità. Ma siccome chi cucina è pagato per farlo, ne deduco che è l'azione è morale se pago il conto alla fine, fatto su cui concorderebbe chiunque. Consideriamo il "mettersi nei panni degli altri": la cena al ristorante va bene se il ristoratore è contento, perché ci guadagna a sufficienza, e il cliente è contento, perché mangia bene e non spende troppo. Quindi è immorale fuggire senza pagare (da parte del cliente), servire cibo scadente o farlo pagare troppo (da parte del ristoratore). Così il critico è servito, visto che siamo al ristorante...

L'equivalenza delle prime due formulazioni è facile da comprendere. Una regola valida per tutti deve necessariamente preservare ciascuno come persona, come soggetto morale, non puro oggetto. Più avanti esamineremo una casistica, per individuare le modalità di applicazione del principio in numerosi casi di incertezza e conflitto.

Le azioni immorali sono pertanto quelle che creano asimmetria tra il soggetto ed il suo prossimo: uccisore ed ucciso, ladro e derubato, truffatore e truffato, in generale chi trae vantaggio esclusivo e chi trae danno, chi agisce e chi patisce.

L'asimmetria deve riguardare la persona in quanto tale ed avere veste di universalità logica, altrimenti la regola non interviene. Ad esempio, se uno svolge un'attività ed è pagato per questo, come abbiamo visto nell'esempio del ristorante, si crea un'asimmetria tra chi lavora e chi paga, ma la corrispondenza equa tra lavoro e compenso annulla la disparità. Essa persiste soltanto nel caso in cui il compenso sia sproporzionato, sulla base di un criterio di valutazione oggettivo: è eticamente scorretto pagare meno del valore del lavoro fatto o viceversa pretendere di più. Se però parliamo di una transazione che incide sulla persona in sé, ad esempio il vendere se stessi come schiavi o vendere una parte del proprio corpo, l'asimmetria diventa irrimediabile. La schiavitù comporta una disparità permanente tra gruppi di persone, uno dei quali viene trattato come cosa o strumento. Ugualmente la vendita di parti del corpo: il venditore si priva della possibilità di godere il compenso. Questo tipo di automenomazione si può ammettere soltanto come spontanea donazione, totalmente disinteressata e in ogni caso mai dovuta, al solo scopo di salvare una vita. In questo caso si vede bene che la relazione umana tra donatore e ricevente, essendo disinteressata, elimina il conflitto degli interessi individuali.

Dai casi che abbiamo visto si possono trarre altre deduzioni interessanti: nella società umana, ciascuno è a volte fornitore di servizi o merci in cambio di denaro, altre volte ne è percettore. Questo, a ben vedere, assicura il funzionamento della società e dell'economia. Supponiamo che vi siano persone che non forniscono mai nulla ma percepiscono soltanto: questo introduce la dicotomia di cui parlavamo, in questo caso tra chi lavora e chi no. Ne risulta chiaramente il dovere, per ciascuno, di fornire qualche tipo di servizio alla società, entro le sue possibilità materiali.

Consideriamo poi la ricerca del potere: il voler essere capo degli altri è un intento chiaramente asimmetrico. E' immorale voler essere capi? Lo è se non implica la disponibilità a svolgere quel ruolo a favore della collettività: se uno ritiene di poter dirigere con competenza una collettività, può ed anzi deve proporsi per un ruolo di comando. Ma la ricerca del potere in sé è palesemente immorale. E si può essere moralmente capi soltanto se si guadagna l'approvazione degli altri, basata sul riconoscimento di una competenza per la funzione. Pertanto la democrazia è l'unica forma di governo moralmente accettabile, nel senso che il potere deve godere, dal punto di vista etico, del libero consenso di chi vi è soggetto. Possiamo far rientrare anche la monarchia costituzionale nell'ambito della democrazia, se il monarca ereditario è soggetto a precise regole e, al momento del suo insediamento, prende l'impegno di rispettarle e di svolgere un ruolo limitato, evidentemente rappresentativo più che effettivo, accettando anche l'eventuale rimozione in seguito ad un'adeguata procedura in caso di indegnità, a compensazione del privilegio goduto. La sola eredità non può mai guistificare l'acquisizione del potere.

Trattare gli altri come se stessi ha un'altra implicazione, assolutamente ovvia anche se intuitivamente non immediata: trattare se stessi come gli altri. Che cosa vuol dire? noi stessi siamo il nostro prossimo più prossimo, la nostra stessa persona deve essere trattata sempre come persona. Contrariamente a quello che si pensa, i primi a cui manchiamo di rispetto siamo spesso noi stessi, la prima dignità umana che offendiamo è spesso la nostra. Non stiamo infatti parlando del fare i propri interessi, ma del portare rispetto alla propria persona in quanto persona. Per fare un esempio, ubriacarsi fino allo stordimento è un'offesa a se stessi anche se non facciamo danno ad altri. Andando all'estremo, il suicidio è una violazione del non uccidere applicata a se stessi. Deve essere chiaro che intendiamo qui la nostra persona dal punto di vista dell'universale, come un qualsiasi altro individuo, non dal punto di vista soggettivo dei propri desideri. L'egoismo è in realtà un'offesa a noi stessi, perché ci rende schiavi dei nostri desideri.

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Considerazioni esplicative del principio

Il principio che abbiamo enunciato coincide sostanzialmente con la legge morale di Kant: il grande filosofo l'ha espressa in forma tecnicamente più precisa, e la mia trattazione si può interpretare anche soltanto come un tentativo di esprimerla in modo più colloquiale, per renderla accessibile a chi trova ostica l'impostazione di Kant, così rigorosa. Ma aggiungo che ho tentato di mostrarne l'indipendenza da qualsiasi impostazione filosofica o religiosa di base, mostrandone la natura fondamentale ed autonoma. Possiamo infatti cercarne le tracce in altre scuole di pensiero e nelle religioni. Abbiamo visto sopra quello che dice il Vangelo. I buddisti parlano di scambio del sé: io mi metto al posto tuo, tu al mio. Gli induisti parlano di ahimsa, tradotto di solito non violenza, ma sarebbe meglio dire semplicemente: non forzare l'altro. Non è forse vero che la madri insegnano ai figli dicendo appunto:"che cosa fai? che cosa diresti se un altro facesse questo a te?". E' il riconoscere l'Altro come pari a Me stesso. Su questo si basa la possibilità di vivere insieme con gli altri.

Pensiamo a come si generano i conflitti: si indica in qualcuno il diverso, il nemico, ciò che non possiamo tollerare. Io sono buono, lui è cattivo - Noi siamo buoni, quegli altri sono cattivi. Anzi, non sono veramente umani: perché nel momento in cui nella controparte vediamo l'essere umano, allora non possiamo più odiarlo, respingerlo, approfittare di lui. Ogni essere umano dotato delle facoltà mentali proprie della specie è in grado di riconoscere l'equivalenza tra sé ed il suo prossimo. Le facoltà necessarie sono la ragione e la coscienza di sé. Un grado inferiore di questa consapevolezza si ottiene attraverso la naturale capacità di simpatia, cioè di comprensione e condivisione del sentimento altrui; ma la ragione eleva questa capacità dal livello emotivo a quello della necessità universale.

Comportamento etico è pertanto quello che considera il prossimo pari al sé. Comportamento immorale è quello che considera il prossimo come strumento per i propri fini. Il principio è del tutto indipendente dai fini specifici che ciascuno si propone, perché soltanto in questo modo può essere universale. I fini immorali sono esclusi dalla forma del principio, non per proibizione diretta e specifica. Non si tratta per nulla di fare elenchi di finalità e classificarle in buone e cattive: la moralità dipende unicamente dal rispetto del principio di base. Il semplice perseguire un fine buono non è morale, se non lo si fa per la legge morale ma perché piace farlo.

Consideriamo il fine della felicità individuale. Se perseguo la mia felicità agendo a scapito di altri, violo il principio dell'etica; se nella mia ricerca attribuisco egual valore alla felicità degli altri, lo rispetto. Ma attenzione: il contenuto materiale del concetto di felicità può essere diverso per ciascuno, quindi tenere conto della felicità degli altri non vuol dire adoperarsi affinché tutti ottengano ciò che soggettivamente considero fonte di felicità, né quello che essi considerano fonte di felicità, ma soltanto che le azioni di ciascuno devono essere tali da non impedire agli altri la loro autonoma ricerca della felicità. Quindi le regole dell'etica non prescriveranno la ricerca della felicità collettiva, ma si limiteranno a renderla possibile in modo equivalente per ciascuno, ad esempio imponendo il rispetto della vita e della proprietà altrui. La ricerca della felicità senza condizioni non è ammissibile, perché si scontrerebbe con il principio morale. Vale anche per la felicità collettiva: è evidentemente impossibile soddisfare simultaneamente i desideri di tutti, quindi il perseguimento della felicità collettiva è privo di senso: per realizzare qualunque cosa, compreso ciò che richiede la morale, si deve quasi sempre scontentare qualcuno.

Se dunque il mio personale concetto di felicità richiede che io possa maltrattare altre persone, allora la mia personale ricerca della felicità sarà immorale; se invece richiede che io faccia del bene al prossimo, sarà compatibile con la moralità. Ma non sarà un fine morale in sé, dato che la moralità non risiede nel fine ma nel conformarsi al principio regolatore.

Per contrasto risulta evidente quale sia la via del male: lo sfruttamento del prossimo, la sua riduzione a strumento dei nostri fini. E' importante notare che non stiamo trattando i fini individuali in sé, ma soltanto il modo in cui li perseguiamo in relazione con il nostro prossimo. L'etica della Via si occupa in dettaglio dei fini dell'individuo, ma non potrà mai essere universale; soltanto l'etica razionale può stabilire il punto d'inizio, comune a tutti, su cui si fonda la convivenza della collettività umana nonché l'inizio di qualsiasi cammino etico personale e, diciamolo pure, anche religioso.

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Etica di base e religione

E' evidente che l'etica di base non si fonda sulla religione. L'etica religiosa dà precetti in quanto li considera provenienti da Dio tramite un libro sacro o un profeta. Questi precetti possono addirittura essere immorali, imponendo ad esempio la guerra agli infedeli. Chi stabilisce, infatti, quali siano gli autentici precetti divini?

Se traessimo le basi dell'etica da un credo religioso, ne perderemmo l'universalità: non tutti credono in quel dato libro sacro, quindi le regole di quel libro non valgono per tutti. Non solo, se si perde la fede si perde anche l'etica! Ma l'etica viene prima di ogni concezione religiosa e perfino filosofica, l'etica sta in piedi per proprio conto, prima dell'ontologia, prima della gnoseologia, prima dell'estetica e soprattutto prima di ogni libro sacro. L'etica di base dice una sola cosa: l'io ed il tu sono intercambiabili. L'etica religiosa convenzionale, invece, si presta perfettamente a creare l'asimmetria: da un lato i fedeli, i credenti, gli eletti, dall'altro gli infedeli, i miscredenti, quelli lontani da Dio. Per il loro bene, i fedeli vorranno convertire gli infedeli, la loro resistenza sarà interpretata come segno della loro lontananza dalla verità. E si potrà giungere alle conversioni forzate se non all'ostilità fisica. Anche il proselitismo apparentemente più innocente potrà rivelarsi gravemente dannoso: cambiare religione non è cosa da poco, perché rende la persona improvvisamente estranea alla sua tradizione culturale d'origine, la sradica dal mondo che era suo per introdurla in un contesto estraneo. E' ammissibile solo come risultato di un cammino spirituale individuale, che comunque non deve comportare il rifiuto delle proprie origini anche se lo attraversa, in una fase intermedia. Non può e non deve essere un fenomeno colletivo, senza causare guasti irrimediabili: la conversione religiosa dei popoli colonizzati dagli europei è stata una tragedia umana, che ha spezzato gli antichi modi di vivere e predisposto le catastrofi di cui siamo testimoni anche oggi, soprattutto in Africa.

D'altro canto, abbiamo anche constatato che le maggiori religioni concordano sul principio etico che abbiamo enunciato. Questo principio, in effetti, ci permette di distinguere tra le religioni autentiche e quelle fasulle: chi prescrive comportamenti in contrasto con la legge morale è un falso predicatore. La legge morale viene dunqe prima della religione; quest'ultima, invece, prosegue indicandoci una via (anagogica). Vi è una pluralità di religioni, che differiscono tra loro, pur concordando su alcuni punti fondamentali, tra cui precisamente la legge morale. Chi è veramente religioso seguirà la propria via ma dovrà ammettere che altri possono trovare giovamento da vie differenti, e che infine tutti si procede, per cammini diversi, in direzione di una meta che in qualche modo è la medesima, sebbene chiamata con altro nome.
 

Conclusione

Il resto dell'etica minima è un esercizio applicativo. Non che la sua importanza sia trascurabile, perché il nostro scopo nel parlare di etica è dare indicazioni concrete e comprensibili, ma non occorre introdurre altri elementi a suo fondamento. Nei prossimi capitoli svilupperemo una casistica di base, servendoci come riferimento delle cinque regole buddiste, riviste in un contesto assolutamente non confessionale, più una regola ulteriore, affrontando i problemi che ciascuna di esse solleva. Piuttosto che enunciare le regole in forma negativa, ho preferito esprimerle, nei titoli, in forma positiva, facendo spesso uso del termine rispetto. Trattare l'altro come se stessi implica infatti, in primo luogo, il rispetto della persona in tutti i sensi diretti ed indiretti.

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Casistica dell'etica minima

Il rispetto dell'integrità fisica

Il primo precetto che prendiamo in considerazione è il fondamentale non uccidere. Non si tratta, però, di risparmiare semplicemente la vita nel termine netto e perentorio di non spegnerla, ma di rispettare integrità della persona fisica. Che questa regola discenda immediatamente dal principio base è fin troppo evidente: distruggere la vita del prossimo o anche solo danneggiarlo o menomarlo fisicamente viola in modo fondamentale il principio dell'universalità. L'applicazione pratica del principio solleva però, nel mondo contemporaneo, un numero sorprendente di difficoltà. Le discussioni su aborto, eutanasia, pena di morte, guerra sono tutte legate alla regola del rispetto della vita.

Le discussioni sull'aborto riguardano in realtà la definizione del momento in cui la vita umana ha inizio, e sono legate al fatto biologico che la specie umana si riproduce con modalità vivipara. Se fossimo ovipari, discuteremmo della liceità di rompere un uovo fecondato; mi sembra tuttavia che la questione non sarebbe altrettanto controversa e sentita. La natura della specie fa sì che la percezione del problema sia fondamentalmente diversa per i due sessi; la struttura sociale peggiora il problema. La biologia fa sì che la vita del feto sia indissolubilmente legata a quella della madre per la durata della gravidanza, creando le basi del problema; il fatto che i maschi siano politicamente dominanti, in particolare in campo religioso, lo aggrava. Il colpo finale arriva dalla rilevanza morale (anzi moralistica) della sessualità. Le discussioni sull'aborto sono minate dal presupposto, non sempre dichiarato, che le gravidanze indesiderate sono spesso legate all'attività sessuale intesa come ludica e non riproduttiva. La condanna della sessualità non riproduttiva, propria dalle chiese cristiane, rende impossibile un dibattito sereno. Il problema viene spostato: invece di affrontare la questione reale, se il feto sia da considerare a tutti gli effetti un essere umano e se la donna abbia il diritto di decidere per esso anche in termini di vita e di morte, si assumono posizioni inconciliabili legate all'etica religiosa.

Se consideriamo che negli Stati Uniti d'America ci sono movimenti terroristici che combattono l'aborto con attentati alle cliniche ed ai medici, vediamo nel modo migliore come l'etica religiosa possa dare risultati aberranti: difendere la vita dei feti uccidendo i medici. Si potrebbe affrontare la questione anche dal punto di vista interno al mondo cristiano, dicutendo se vi sia un fondamento nella Bibbia al rifiuto dell'aborto (sembra che non vi sia nell'Antico Testamento, tanto che gli ebrei ammettono l'aborto fino all'ottavo mese), ma non è opportuno farlo. Ai fini dell'etica la Bibbia vale come ogni altro libro importante.

Cerchiamo di capire se embrioni e feti sono umani e fino a che punto. Dire che un embrione è un essere umano equivale a dire che l'uomo è solo un ammasso di cellule. Un'affermazione che, fatta in questi termini, suona come bieco materialismo. Perché si possa applicare il principio di univeralità, dobbiamo avere a che fare con una persona, non un'entità biologica. Stiamo cercando un limite inferiore, quindi non richiediamo che si tratti di un essere umano nel pieno delle sue facoltà, ma dovrà sussistere, tanto per cominciare, un minimo di attività percettiva. Del resto, la legge italiana attuale ammette che un essere umano sia morto al cessare dell'attività cerebrale, anche se il cuore batte ancora, e perfino la chiesa cattolica è d'accordo. Penso che nessuno possa affermare che un essere che non ha un cervello sia una persona; anche la presenza di un sistema nervoso non è sufficiente finché non si può configurare una reale funzionalità. L'altro limite estremo è quello dell'esistenza indipendente: nel momento in cui il feto acquisisce la capacità di sopravvivere autonomamente, non possiamo negargli di essere una persona, le cui facoltà sono solo temporaneamente limitate. L'argomento del sistema nervoso ci porterà a sospingere indietro il limite, bilanciando tra loro tutte le considerazioni del caso, inclusa la necessità di evitare sofferenze ad un essere non compiutamente umano ma sensibile. Sottolineo, però, che una discussione serena risulta estremamente difficile a causa delle posizioni aprioristiche dei religiosi.

Credo che qualunque persona priva di pregiudizi possa accettare che l'aborto sia ammissibile fino ad un certo grado di sviluppo del feto. L'altro aspetto riguarda la decisione della donna: finché non sussiste la condizione di autonomia potenziale, la vita del feto è biologicamente legata alla sua. Non vedo come si possa negare che la responsabilità ultima sia quindi della donna: nessuno potrà imporle una decisione che riguarda il suo corpo e la sua vita, salvo che si possa stabilire in modo netto e preciso un diritto autonomo del feto.

Questo non vuol dire che l'aborto non sia un fatto traumatico e possibilmente da evitarsi. Ma è assai diversa la questione della proibizione o dell'ammissibilità per legge. Si dovrà dare tutta l'assistenza possibile per evitare l'aborto, quando sia dovuto a problemi sociali ed economici, ma non lo si potrà totalmente proibire, nei limiti che abbiamo descritto.

L'eutanasia è un altro tema largamente discusso ai nostri giorni. Qui si parla di dare la morte ad una persona che la sceglie volontariamente, per sottrarsi a sofferenze insopportabili accelerando una fine ormai inevitabile. L'eutanasia può essere anche vista come una forma di suicidio, e come tale offensiva della vita nella propria persona oltre che ad opera del terzo che assiste. Considerando il rispetto della persona in se stessi e nell'altro, possiamo ritenere accettabile l'eutanasia soltanto se il mantenere la persona in vita non è più compatibile con la sua dignità umana. La volontà del morituro è comunque fondamentale nel dare una giustificazione al fatto: una scelta libera e responsabile è necessaria per giustificare l'operato di chi fornisce i mezzi o compie direttamente l'atto di provocare la morte. Il principio di base dell'etica, per l'appunto sulla base del principio di reciprocità, non è incompatibile con l'eutanasia in presenza di un accordo chiaro tra medico e malato e di una volontà libera e consapevole di questo, quando la sopravvivenza non abbia alcuna possibilità di avvenire in condizioni minimamente dignitose. Si tratta in realtà di casi rarissimi, anzi quasi puramente teorici: se le sue condizioni sono così cattive, non si vede come il moribondo possa essere consapevole e lucido nel decidere, se non in condizioni del tutto eccezionali; se invece non è così malridotto, l'eutanasia sarebbe un suicidio assistito e quindi immorale. La regola vuole, invece, che si fornisca al malato tutta l'assistenza medica e psicologica che gli consenta di trascorrere umanamente i suoi ultimi giorni, facendo preferire ad esempio una terapia che riduca il dolore ad una che prolunghi di poco la vita a prezzo di gravi sofferenze.

Diverso è il caso di chi non può dare il consenso essendo privo di conoscenza: l'eutanasia non è ammissibile se non in caso di certezza dell'impossibilità di una qualsiasi ripresa delle funzioni psichiche. Vista la capacità della medicina attuale di far sopravvivere corpi umani in condizioni estreme, unita all'inesistenza di una effettiva certezza sull'incapacità di ripresa, ci si deve limitare all'eutanasia passiva, sospensione del supporto vitale quando le probabilità che il malato si riprenda scendono ad un limite minimo su cui solo la scienza medica può pronunciarsi.

Vorrei far notare qui che la "morte cerebrale" introdotta per consentire i trapianti costituisce in fondo una forma di eutanasia del donatore, mascherata dall'alterazione della definizione di morte. Quest'ultimo caso deve essere coperto dalla volontà espressa esplicitamente in vita di sottoporsi all'espianto. Il principio che un essere umano è padrone del proprio corpo non può essere violato, perché la sua mancanza nega il principio base che non consente l'uso della persona umana a fini altrui. Questa proprietà deve per di più considerarsi inalienabile: si è padroni di se stessi ma non nel senso di potersi vendere. La mercificazione non può essere consentita, è assolutamente immorale in quanto introduce un'asimmetria irrimediabile tra chi si vende e chi compra, come abbiamo già discusso.

Queste argomentazioni fanno emergere l'obbligo morale che la collettività dia assistenza a chi è nel bisogno, specialmente per quanto riguarda la salute fisica. Al di là delle controversie sui singoli temi, si nota come sulla base del più elementare principio morale dell'umanità insorga l'obbligo di assistere chi è nel bisogno. E si rivela l'immoralità di affidare a meccanismi puramente economici la difesa dei malati e dei bisognosi.

Un altro tema scottante, che ho affrontato in contesti politici per Kosovo e Afghanistan, riguarda la liceità della guerra. In guerra è previsto che si uccida il nemico, la guerra suddivide l'umanità in gruppi avversi tra loro, attivamente impegnati nel darsi reciprocamente la morte. In questi termini la guerra è immorale in sé. In particolare, scatenare una guerra di aggressione costituisce una colpa terribile, una violazione del non uccidere tra le più gravi (soltanto il genocidio può dirsi peggiore). Ma che cosa deve fare la parte aggredita?

Intanto dobbiamo notare che la guerra tradizionalmente è soggetta a regole. Teoricamente, tutte le nazioni civili dovrebbero convenire che l'unica uccisione lecita in guerra è quella del combattente. Il soldato stesso, nel momento in cui dichiara la resa, diventa inviolabile: è dovere del vincitore detenerlo umanamente e liberarlo alla fine delle ostilità. Nella guerra dovrebbe essere applicato dunque un codice di comportamento che limita e controlla la violenza. Le Convenzioni di Ginevra esprimono in dettaglio i limiti dell'azione bellica, in particolar modo per quanto riguarda la protezione dei non combattenti, dei civili. Ma nelle guerre attuali men che mai si applicano questi principi. Azioni terroristiche e bombardamenti aerei di obiettivi civili costituiscono la regola, mentre gli scontri tra armate regolari sono pressoché scomparsi. Tutti i popoli nella storia hanno sviluppato codici morali dei combattenti, in virtù dei quali emergeva addirittura una grandezza morale particolare, di chi mette a repentaglio la propria vita combattendo in modo onorevole. Come si concilia questo con l'immoralità della guerra?

Il principio di reciprocità consente senz'altro che ad un'aggressione violenta si risponda con quel tanto di violenza che è necessario a fermare l'aggressione. Se uno mi attacca con l'intento di uccidermi, mi autorizza ad usare contro di lui la violenza allo scopo di proteggere la mia vita, possibilmente risparmiando la sua, ma senza escludere la possibilità di ucciderlo se non vi sono altre possibilità. Un'azione finalizzata a porre fine ad un'aggressione è lecita: tende a ripristinare la condizione in cui non vi sono aggressioni. Che l'aggredito abbia il diritto di difendersi anche con la forza è quindi palesemente conforme al principio dell'universalità; non solo, è anche richiesto che si intervenga a difendere altri che siano aggrediti. E' chiaro pertanto che, in presenza di un'aggressione collettiva, non è immorale nemmeno la difesa collettiva. L'azione bellica di resistenza ha la funzione di impedire che l'aggressore porti a termine un disegno criminoso di violenza volta a distruggere o sottomettere la collettività attaccata. Chi combatte una guerra difensiva non offende la vita, anzi agisce a protezione della vita dei propri concittadini. Consideriamo il principio opposto, di cedere sempre, rinunciando alla difesa: questo porterebbe al successo immediato di ogni aggressione e quindi alla cessazione di qualsiasi collettività di uguali.

Chi è contrario alla guerra in assoluto dice che conviene comunque arrendersi, ma non può dimostrare che in questo modo si difende la vita più che opponendosi all'aggressione. Una per tutte, vale l'esperienza della II Guerra Mondiale: nei confronti della Germania nazista si tentò ripetutamente di giungere ad accordi che evitassero la guerra, col risultato di incoraggiare la tracotanza di Hitler, spinto a credere che il mondo intero gli avrebbe concesso tutto ciò che chiedeva. Il risultato fu lo scatenamento della guerra più grande che l'umanità abbia mai visto. Se si fosse risposto adeguatamente alle prime aggressioni naziste, l'entità della catastrofe sarebbe stata minore.

Si deve aggiungere infine che, in termini di difesa collettiva, chi combatte mette a disposizione la propria vita per proteggere i propri concittadini, e per l'appunto col rischio della propria vita compensa anche l'eventualità di uccidere il nemico. Nella tragica necessità in cui si trova, ricrea una reciprocità di rapporti su un piano terribile ma corretto. E' chiaro però che non sarà mai lecito attaccare i membri non combattenti del popolo nemico, perché essi non rappresentano una minaccia diretta alla vita né del combattente né tantomeno dei civili suoi concittadini (vedere la nota 1).

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Il rispetto della proprietà

Il secondo precetto base è non rubare, o meglio non prendere ciò che non è dato. Sottrarre ciò che appartiene ad altri viola il principio base della reciprocità in modo pressoché diretto, generando la coppia asimmetrica di danno - vantaggio relativamente alle cose che rivestono per la persona una funzione fisica o anche solo psicologica (un oggetto può infatti rivestire un valore affettivo sproporzionato al suo valore pratico). Al furto occorre naturalmente affiancare il danneggiamento delle cose altrui, che risulta sostanzialmente equivalente, salvo che il vantaggio per chi compie l'atto non sussiste o si limita al puro piacere di distruggere.

Il rispetto della cosa altrui, relativamente all'etica minima, dovrebbe limitarsi alle proprietà nel senso più ristretto: ciò che serve o comunque ha importanza immediata per la vita o per il benessere fisico o psichico della persona. Ma il concetto di proprietà assume, nella società umana, significati molto più estesi. Ci sono persone le cui proprietà hanno un valore monetario pari a milioni di volte quelle di altre. Molte cose appartengono ad entità giuridiche e non a persone fisiche. Il rispetto di tali proprietà rientra più nel concetto generale di rispetto delle regole sociali che nel non rubare. Lo affronteremo pertanto insieme con il principio del rispetto delle leggi.

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Il buon comportamento sessuale

Il tema della sessualità sembra essere di gran lunga il più dibattuto quando si parla di etica. Abbiamo già visto come il dibattito sull'aborto, pur appartenendo alla sfera del rispetto della vita umana, in realtà sia fortemente influenzato dalla sua relazione col comportamento sessuale. Nel linguaggio comune, immoralità di solito è sinonimo di cattivo comportamento nella sfera del sesso. Recentemente abbiamo assistito al triste spettacolo della messa in stato di accusa di un presidente degli Stati Uniti d'America per una vicenda di sesso, mentre lo stesso personaggio emanava disposizioni ai suoi servizi segreti ed alle sue forze militari per scatenare una guerra, che ha provocato migliaia di vittime ed ha imposto disagi e sofferenze a milioni di persone della Jugoslavia.

Quest'attenzione sproporzionata per il sesso è in gran parte dovuta alla sessuofobia di origine cristiana: la posizione delle chiese, sia pure con sfumature diverse, è che qualunque attività di natura sessuale è immorale, salvo che sia finalizzata alla riproduzione. Questa finalità nobile è considerata l'unico elemento tale da riscattare la natura diabolica del piacere sessuale.

Più in generale, sembra che ogni forma di piacere fisico sia considerata in sé immorale. La stessa parola "piacere" suscita automaticamente l'associazione con "colpa" o "peccato". Tutto questo, in realtà, non ha nulla a che vedere con l'etica di base, di cui stiamo parlando. Aggiungerei che la proibizione di svolgere un'attività piacevole si può considerare di per sé immorale. Se uno sta svolgendo o intende svolgere un'attività per lui piacevole, senza che questo arrechi danno o disturbo ad alcuno, un'eventuale interferenza si configura come una vera e propria mancanza di rispetto alla persona. L'impedimento di un'attività piacevole equivale infatti all'imposizione di una sofferenza, quindi ricade, sia pure in forma blanda, sotto la regola del rispetto dell'integrità fisica.

Tornando alla sfera sessuale, si può tranquillamente dire che qualunque attività di tipo sessuale svolta tra persone adulte e consenzienti, ed in condizioni tali da non arrecare danno o turbamento ad altri (ed a loro stessi), si può considerare compresa nel buon comportamento sessuale. L'adulterio non vi rientra, perché implica la violazione di un patto esplicito: costituisce infrazione ad un impegno e mancato rispetto della parola data, per di più aggravato dall'importanza del vincolo matrimoniale, che non concerne solo la sfera sessuale ma l'esistenza dei coniugi, e degli eventuali figli, in modo complessivo. La gravità di una relazione adulterina risiede nel fatto che essa può minare un matrimonio, non nella sua natura sessuale.

Il vincolo tra sesso e riproduzione dovrebbe essere addirittura rovesciato, rispetto alla tesi cattolica che proibisce addirittura la contraccezione. Esistendo infatti la possibilità di controllare l'esito riproduttivo dei rapporti sessuali, è semmai colpevole fare sesso senza precauzioni, accettandone il risultato in modo casuale: in questo caso, infatti, si coinvolge indebitamente una terza persona, l'eventuale nascituro indesiderato, al quale si procura un'esistenza difficile appunto fin dalla nascita. Imporre a qualcuno di nascere in un contesto problematico è eticamente scorretto. Potendosi fare in modo che ogni nascita sia voluta e preparata, diventa un dovere nei confronti della prole agire in tal senso. Un rapporto sessuale non riproduttivo, invece, se non ci sono altre implicazioni è eticamente irrilevante.

Le altre implicazioni, a parte quelle riproduttive, possono essere economiche. La prostituzione è antica come l'umanità, secondo il detto popolare. L'immoralità della prostituzione discende dalla mercificazione del corpo umano che essa implica, con la riduzione della persona a puro strumento. Questo concetto rimane però vincolato al contesto sociale. In realtà la riduzione a strumento è dovuta principalmente alla condizione di sfruttamento in cui si trova la prostituta (o il suo equivalente maschio). In una società che considerasse la prostituzione come un'attività economica accettabile, opportunamente regolata dalla legge, sottratta alla gestione malavitosa, con garanzie per chi la esercita, le sue implicazioni morali sarebbero assai minori. La vendita delle proprie prestazioni sessuali rimane cosa di per sé inaccettabile in quanto tocca una sfera troppo intima, ma in un diverso sistema sociale potrebbe essere considerata almeno tollerabile. Non può essere paragonata, peraltro, con la vendita del proprio corpo in senso proprio e materiale, che sarebbe sempre proibita in quanto intacca l'integrità della persona (come abbiamo visto sopra).

Simile a questo è il caso della maternità surrogata, il cosiddetto utero in affitto. Negli Stati Uniti è ammesso dalla legge che una donna si faccia pagare per ospitare l'embrione di una coppia con problemi di sterilità. In Europa non lo è. Siamo di nuovo in una situazione limite: ma qui l'invasione dell'intimità e la vicinanza all'integrità della persona è così grande che il confine col vendersi in senso proprio mi sembra superato: l'uso del proprio corpo come incubatrice per terzi implica una minaccia alla propria integrità ben maggiore di una prestazione sessuale. Questo tipo di prestazione può essere riportato sul piano della parità reciproca, del rispetto della persona e quindi dell'accettabilità solo da una determinazione libera e disinteressata, senza vincolo economico.

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L'uso corretto della parola

Proseguendo con la sequenza delle regole troviamo quella sull'uso della parola. Gli occidentali in generale non dedicano moltissimo spazio a questo argomento, limitandosi solitamente alla proibizione della menzogna. Trovo invece molto significativo che i buddisti attribuiscano grande importanza all'espressione verbale, perché moltissime violazioni etiche avvengono prima di tutto in questo ambito.

La violenza verbale è di gran lunga la forma di violenza più comune nella nostra società. L'aggressione fisica, infatti, è maggiormente repressa; la sanzione dell'aggressione verbale è invece solitamente irrilevante. Per di più i media ci propongono quotidianamente spettacoli indecorosi in cui si ascoltano insulti anche pesanti, insinuazioni, calunnie, provocazioni. Dal punto di vista etico l'aggressione verbale non è, invece, tanto meno grave di quella fisica. Scagliarsi contro un altro con cattive parole, o peggio con parole malevole, contiene in sé comunque la rottura del rispetto per il prossimo tanto quanto lo conterrebbe un pugno in faccia, a volte può equivalere addirittura ad una coltellata. La tolleranza verso gli assalti verbali dovrebbe essere assai minore di quella che osserviamo oggi, in particolar modo nelle situazioni pubbliche: spettacoli o dibattiti parlamentari ...

Ugualmente dovrebbe essere minore la tolleranza per la menzogna pura e semplice. Ce ne vengono propinate quantità immense, a cominciare dalla pubblicità commerciale. Le asserzioni false od ingannevoli dovrebbero essere sempre considerate cosa grave, perché violano la dignità umana in modo nettissimo, ad esempio inducendo le persone a comportamenti dannosi per loro stesse. Uno spot pubblicitario che induce sottilmente e consapevolmente a comportamenti dannosi è immorale. Il fatto che sia difficilmente sanzionabile sul piano legale non ha importanza qui, perché parliamo di etica, non di scienze giuridiche. Il consumatore ha un solo modo di tutelarsi: non comprare il prodotto!

Capita perfino che uomini politici affermino apertamente che quanto dichiarato in campagna elettorale non implica alcun obbligo per loro, in quanto si sa che le promesse elettorali valgono poco. Questi signori dovrebbero essere considerati indegni di ricoprire qualsiasi carica. Ma il giudizio tocca agli elettori, non si tratta di fare leggi per obbligare a mantenere le promesse, è compito dell'elettore verificare che siano mantenute e regolarsi di conseguenza alle elezioni successive (ammesso che il sistema lo consenta, ma entriamo in un altro argomento).

E' segno della confusione etica in cui versa la nostra società che si discuta tanto su temi come la clonazione, e si accetti tranquillamente di essere trattati quotidianamente come idioti creduloni da pubblicitari e politici.

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L'uso delle sostanze psicotrope

La prima motivazione contro l'uso delle sostanze che hanno effetto sullo stato mentale è che possono portare alla perdita del controllo delle proprie azioni e quindi a comportamenti immorali da altri punti di vista. L'individuo che causa deliberatamente a se stesso la perdita, sia pur temporanea, della facoltà di essere consapevole delle proprie azioni si pone al di fuori dell'agire morale troncandone la base. Potrebbe comunque controbilanciare quest'azione adottando precauzioni contro eventuali comportamenti incontrollati.

L'altro motivo per considerare inaccettabile l'uso di droghe è però il danno fisico che esse producono a chi le assume. L'universalità della regola etica implica che si porti a se stessi lo stesso rispetto che si porta agli altri, quindi impedisce di danneggiarsi. Occorre tuttavia confrontare il danno eventuale prodotto con il vantaggio che si trae dall'uso della sostanza: il singolo può accettare il rischio di conseguenze negative per se stesso in cambio del piacere che prova nell'uso della sostanza. E' l'atteggiamento comune a tutti i fumatori. Questo argomento si applica in realtà a qualsiasi attività fisica, compreso il cibarsi: i cibi gustosi possono essere dannosi per la salute, dobbiamo astenercene? Il confine tra moralità e immoralità qui passa non tra uso e non uso, ma tra uso ed abuso. Anche il cibo più salutare se assunto in quantità eccessiva ci procurerà danno! Peraltro la rinuncia totale a qualcosa di piacevole può risultare più dannosa di un suo uso moderato, anche fisicamente. E' appunto l'abuso in sé, non la qualità della sostanza che si assume, l'aspetto rilevante. Vi sono, peraltro, sostanze tali che un loro uso moderato non è concepibile.

Dal punto di vista dell'etica di base, dobbiamo concludere che l'uso voluttuario di una sostanza psicotropa è ammissibile, soltanto se avviene in circostanze tali da non causare danno ad altri né a se stessi. Questa condizione è molto più restrittiva di quanto non sembri: proibisce ad esempio di fumare in un ambiente chiuso in cui vi siano non fumatori. L'uso di droghe potenti e con forte potere di assuefazione, come l'eroina, risulta comunque inaccettabile, per la mancanza della possibilità di escludere il danno. Che vi siano comunque situazioni reali in cui si può far uso di sostanze anche potenti senza danno è dimostrato dall'esempio degli alcolici: sono droghe tali da poter anche uccidere, ma esistono concretamente contesti sociali in cui si consumano senza problemi. Qualche bicchiere di vino che accompagna un buon pasto in compagnia non è nulla di male, anche se ubriacarsi è inammissibile.

Come si può notare, le sostanze di cui stiamo trattando non sono soltanto le droghe illegali. Che siano legali o no, qui non interessa: l'alcool ed il tabacco sono in effetti le sostanze più importanti tra quelle che hanno effetto sul comportamento umano. E' certo che vi sono sostanze che provocano assuefazione, fisica o psicologica, inducendo a consumi crescenti fino a portare alla distruzione sociale e fisica della persona. Ma non si può dire che la classificazione delle sostanze contenuta nelle leggi tenga conto in modo oggettivo della loro pericolosità in questo senso visto che, ad esempio, l'alcool produce certo più danni di altre sostanze che sono proibite.

Dato però che il consumo di qualunque sostanza non è inammissibile in sé ma soltanto per i suoi effetti, non vi sono difficoltà morali all'uso medico, e questo dovrebbe essere ovvio ma non sempre sembra esserlo per tutti, visto che tuttora si pongono ostacoli legali all'uso medico, per esempio, della cannabis indica.

La questione della droga è in effetti un problema sociale piuttosto che etico. Riguarda il fatto che ci sono persone che facilmente cadono vittime della dipendenza da sostanze del tipo più diverso; diventano così il centro di un insieme di eventi e circostanze dannose per loro stessi e per tutti coloro che li circondano: distruggendo le proprie famiglie, commettendo delitti, rendendosi funzionali ad un universo criminale che prospera sulla loro condizione sventurata. In base all'etica minima queste persone sono responsabili di ciò che fanno, non del consumo di droga in sé ma dell'incapacità di controllare il proprio comportamento. Un'analisi adeguata del problema richiederebbe ampio spazio, esulando dai limiti di questa trattazione.

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Il rispetto delle leggi

Aggiungiamo un ulteriore capitolo alla lista ricavata dai precetti di Etica e regole. E' interessante notare che le liste dei comandamenti di tipo religioso non parlano mai del dovere di rispettare le leggi. Il motivo è semplice: il dovere civico non era distinto dal dovere religioso nelle società tradizionali. Questa mancanza di separazione tra la sfera religiosa e quella civile persiste ancor oggi nel mondo islamico, e costituisce uno dei principali motivi di scontro con il nostro mondo, di cui la laicità delle istituzioni è un tratto fondamentale.

Che le leggi debbano essere rispettate è evidentemente richiesto, come possiamo dedurre dal fatto che il mancato rispetto di esse produce appunto una dicotomia insanabile, tra chi si sottrae al dovere civico e chi non lo fa. In Italia, in particolar modo, sembra però sfuggire alla maggioranza dei cittadini il semplice fatto che violare la legge non è soltanto possibile (anche se spesso remota) causa di guai giudiziari, ma è immorale in sé.

Naturalmente il mancato rispetto delle leggi può essere giustificato in molti modi: perché sono ingiuste, perché sono inutili, perché sono inapplicabili.

Se una legge impone un comportamento contrario all'etica, è effettivamente giusto e lecito non applicarla. Ma questo caso si verifica soltanto in situazioni estreme, in presenza di regimi oppressivi che formulano disposizioni contrarie ai principi elementari di umanità, come le leggi razziali del nazismo e del fascismo. In quel caso l'opposizione comporta anche un notevole rischio personale. Le leggi di uno Stato democratico difficilmente ricadranno in questo ambito; in molti casi le obiezioni morali riguardano non quello che la legge impone, ma quello che essa permette: le istituzioni di tipo religioso pretenderebbero l'allineamento delle leggi dello Stato con le regole etiche loro proprie. Ma lo Stato non può essere vincolato che ad un'etica minima, quindi laica, nel rispetto delle convinzioni di tutti i cittadini. Chi desidera imporsi regole restrittive può farlo, ma non deve impedire agli altri di fare ciò che la legge dello Stato non proibisce. Abbiamo già visto come le etiche religiose possano anche indurre a comportamenti non etici dal punto di vista dell'etica minima universale.

Quanto al giudicare una legge inutile o inapplicabile, non può spettare al singolo cittadino ma soltanto alle istituzioni preposte. Il cittadino dovrà adoperarsi nelle dovute sedi per farla modificare o abrogare, se così ritiene. L'esistenza di leggi effettivamente inapplicabili non è però un fatto così raro come dovrebbe essere, e favorisce la mancanza di rispetto e la tendenza all'interpretazione estensiva, così consone alla mentalità dell'italiano medio.

In generale, dunque, è dovere etico rispettare la legge, salvo rari casi in cui può addirittura essere dovere etico violarla. Ma questi ultimi casi devono essere considerati con estrema attenzione, data la naturale tendenza umana a confondere la morale con i propri comodi.

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Perché dobbiamo comportarci secondo la legge morale?

Abbiamo esposto tante considerazioni su come ci si deve comportare, ma non abbiamo affrontato l'obiezione fondamentale: perché dobbiamo rispettare il principio etico? L'individuo immorale afferma infatti: non c'è ragione per non perseguire la propria felicità a scapito di chiunque. Se non lo fai, ti giustifichi con tante regole, ma in realtà sei soltanto debole e vile.

Il religioso risponde: perché è la volontà di Dio. Ma questo subordina l'etica alla fede: se non posso dimostrare che Dio esiste e che prescrive esattamente le regole che l'etica religiosa enuncia, la risposta rimane vuota. Se poi anche si crede, in fondo non significa altro che sottomettersi alla volontà divina per ottenere un premio ed evitare una punizione in un'altra vita. E' sempre la ricerca della felicità individuale, sublimata nel riferimento ad un'esistenza ultraterrena o ad una prossima esistenza terrena (per quelle religioni che ammettono la metempsicosi). Questo è esattamente il metodo usato dai fondamentalisti islamici per istruire gli aspiranti terroristi suicidi: se rinunci alla tua vita per combattere gli infedeli, andrai immediatamente in paradiso. Il risultato più sconvolgente l'abbiamo visto l'11 settembre 2001. Gli attentatori non erano né ignoranti né stupidi, erano tutti uomini di buona estrazione sociale e di discreto livello culturale. Essi credevano in una loro particolare etica religiosa, che considera altamente meritorio sacrificarsi per colpire i nemici della loro fede. Che questo non abbia nulla a che vedere con l'autentico Islam non ci interessa qui, perché comunque si tratta di una visione di tipo religioso. Alcuni versetti del Corano sono stati interpretati in modo molto estensivo: ma su che base possiamo stabilire che questa interpretazione è certamente errata? Solamente in base al fatto che essa viola l'etica minima. Sta al nostro giudizio riconoscere se un preteso libro sacro contiene effettivamente parole sagge o no, visto che esistono molti libri sacri, e spesso il medesimo libro contraddice se stesso. Nella Bibbia, ad esempio, si trovano racconti di azioni terribili (nota 2).

Quale motivazione rimane, dunque, a comportarsi bene? Soltanto il puro e semplice fatto che comportarsi bene è meglio che comportarsi male. Non perché ci dia la felicità, può accadere anzi che un comportamento morale ci porti danno: ad esempio il rifiuto di collaborare ad un'azione immorale può farci subire le ire del malintenzionato di cui frustriamo i piani. Fra l'altro, questo dimostra che per comportarsi bene può essere necessario, a volte, molto coraggio. La superiorità del comportamento morale sta nel fatto che esso esprime la nostra natura di esseri sensibili, razionali e coscienti. Ciò che caratterizza la specie umana è la consapevolezza delle proprie azioni: anche l'animale può agire altruisticamente, ma lo farà sulla base di un impulso primitivo. Soltanto l'essere umano può coscientemente deliberare di comportarsi secondo la regola morale. Nel caso in cui non lo faccia, si abbassa non ad animale ma a bestia, perché agisce sulla base della ricerca del proprio bene materiale, come un animale, calpestando il prossimo non per accidente ma con deliberazione precisa, rimanendo dotato di coscienza e ragione in quanto umano. Se siamo umani, dobbiamo comportarci moralmente.

Certo, se tutti si comportassero bene si vivrebbe tutti meglio. Tutti infatti terrebbero conto degli altri nel loro agire, i contrasti personali e collettivi si stempererebbero, i bisognosi di aiuto l'otterrebbero, saremmo circondati da persone sempre ben disposte verso di noi. Questo darebbe una buona misura di felicità a tutti, tranne forse ad una minoranza di ambiziosi incontentabili ed ai malvagi per costituzione, se esistono. Da questo punto si potrebbe cominciare la trattazione della seconda parte dell'etica, quella che riguarda appunto la via da percorrere per un'esistenza migliore. Qui dunque, per ora, ci fermiamo.
 

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Alberto Cavallo, 27 gennaio 2002
 

Note

(1) Le guerre a noi vicine
Parlando di fatti vicini a noi, non è mai lecito bombardare obiettivi non militari; colpirli per sbaglio è una tragica eventualità della guerra, purché sia veramente un errore e si siano prese precauzioni per evitarlo. Per chiarire meglio, la strategia usata dalla NATO in Jugoslavia era assolutamente immorale in quanto si compivano attacchi deliberati a strutture civili; quella usata dagli americani in Afghanistan è da chiarire, ma sembra che vi sia stata scarsa cura nel distinguere i bersagli e si sia fatto uso di mezzi inadatti a garantire la selezione dei bersagli, e che vi siano dunque responsabilità gravi, ma nella prassi tattica piuttosto che nella concezione strategica. In ogni caso, le azioni in Jugoslavia non si configuravano in alcun modo come risposte ad un'aggressione, mentre in Afghanistan si colpiva un regime attivamente aggressivo in vari modi. Questo non evita però un giudizio morale negativo sui metodi di guerra usati dall'America, che mette a rischio la vita dei civili per preservare i propri militari. Il metodo dei bombardamenti aerei massicci è in sé immorale ed inaccettabile: l'etica militare richiede che il combattente rischi la propria vita per salvare i civili, non viceversa! Se per colpire la base nemica senza coinvolgere il villaggio vicino occorre volare a bassa quota rischiando di essere colpiti a propria volta, sganciare le bombe da alta quota per prudenza  e colpire il villaggio, anche se per sbaglio, diventa strage volontaria. Se sto davvero combattendo per i civili afgani contro il regime dei talebani, devo essere coerente e fare di tutto per evitare di colpire coloro in favor dei quali affermo di combattere!
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(2) "e fecero anatema, a fil di spada, tutto ciò che era nella città dall'uomo alla donna, dal ragazzo al vecchio, al bue, alla pecora e all'asino", Giosuè 6,21. La strage compiuta dagli ebrei a Gerico è consentita da Dio, che fa crollare miracolosamente le mura della città per assicurarne la conquista; al versetto 27 si legge "Il Signore fu con Giosuè". Naturalmente fior di esegeti daranno spiegazioni dotte sull'interpretazione corretta di queste parole. Resta il fatto che qualunque sforzo interpretativo dovrà partire da principi indipendenti dal contenuto del testo, altrimenti non sapremo mai quando accoglierlo come tale e quando considerarlo immagine o allegoria. Per trovare la volontà di Dio nella Bibbia, sembra che dobbiamo già conoscerla a priori...
 
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