Il vero perdente non è però Al Gore, ma l'insieme delle istituzioni americane.
Prima di tutto, senza tener conto di eventuali errori a suo sfavore avvenuti nei famigerati conteggi della Florida, Al Gore ha ottenuto anche ufficialmente più voti di Bush. La sua sconfitta è dovuta al particolare meccanismo elettorale americano, per il quale ciascuno stato dispone di un numero stabilito di voti elettorali (corrispondenti ad un numero di rappresentanti da inviare a Washington per l'elezione formale del presidente), che vengono attribuiti per intero al candidato che ottiene, in quel medesimo stato, la maggioranza relativa. Questo comporta la vanificazione dei suffragi ottenuti dagli altri candidati, che non hanno la possibilità di sommarli ai voti ottenuti in altri stati. Già alre volte era accaduto che, per via di questa procedura contorta, risultasse vincitore un candidato che non aveva ottenuto la maggioranza del totale nazionale dei voti.
Anche il fatto che i giudici delle corti supreme dei singoli stati così come della federazione siano di nomina esclusivamente politica ha avuto la sua rilevanza. La corte suprema è ancora a maggioranza repubblicana, per via delle nomine fatte da Reagan e Bush senior, mentre la corte della Florida è a maggioranza democratica, dato che l'attuale governatore Jeb Bush (fratello di George W.) non ha ancora potuto ribaltarne la composizione.
La corte federale e la corte della Florida hanno rispettato i ruoli,
pur evitando per un mese buono sentenze risolutive, per l'evidente
delicatezza
della questione. La corte suprema federale ha posto però il
sigillo
alla vittoria di Bush negando al suo avversario il completo riconteggio
a mano dei voti.
La condizione di quasi perfetta parità raggiunta dai due candidati, in fondo, dimostra come entrambi abbiano avuto successo nell'inseguire quell'elettore medio che è l'obiettivo principale di ogni campagna elettorale. I candidati convergono al centro, attenuando la propria caratterizzazione, per i repubblicani a destra, per i democratici a sinistra. Le posizioni più nette sono perciò evitate, gli atteggiamenti sfumano verso compromessi dolciastri tra progressismo e conservatorismo. Lo stesso fenomeno accade in Italia: i programmi di governo dei due poli hanno molte somiglianze, per quanto se ne può capire, vista la loro deprimente genericità.
L'elettore, quindi, può solo scegliere tra diverse sfumature, non tra posizioni alternative. Una sola certezza rimane: entrambi i candidati sono appoggiati dalle grandi forze economiche del capitalismo postmoderno. Le rispettive macchine elettorali non potrebbero funzionare senza cospicui contributi di gruppi e lobbies che, finita la competizione elettorale, andranno a riscuotere il compenso sotto forma di leggi e provvedimenti di governo.
Questo è il frutto dell'elezione diretta nazionale del presidente: la campagna richiede mezzi così grandi da essere alla portata soltanto di chi dispone di un sostegno economico estremamente consistente. Ne ho già parlato trattando dell'elezione diretta in generale.
Nella battaglia tra i due nani sostenuti dai giganti si è però intrufolato un personaggio diverso: il candidato verde Ralph Nader. La sua campagna era basata sul rispetto dell'ambiente e sulla necessità di porre un freno allo strapotere delle multinazionali, ed ha avuto un discreto successo, ottenendo il 2,6 % dei voti. E' opinione diffusa che Nader abbia dato un contributo significativo alla sconfitta di Gore, sottraendogli molti voti di elettori liberal. Lui ne è contento, perché ritiene di poter combattere meglio la destra quand'essa è al potere: con un governo di sinistra moderata, il margine di manovra dei verdi è minore.
Insomma, Al Gore ha perso perché ha affrontato Bush sul suo terreno, contendendogli l'elettorato di centro ed il sostegno dei potentati economici. Questo gli ha fatto perdere i voti progressisti, mentre Bush non ha subito analoghe erosioni da parte dei candidati di estrema destra, come Buchanan.
Del resto, se Bush avesse rinunciato al
sostegno
delle corporations, avrebbe perso ancor più nettamente.
E'
una situazione drammatica: la democrazia è stata svuotata, un
candidato
che difende gli interessi degli elettori non può batterne uno
che
difende quelli dei potentati economici, perché tutti gli
strumenti
di comunicazione sono a disposizione di quei medesimi potentati.
Dal presidente Bush ci possiamo aspettare una politica di tagli all'assistenza sanitaria e pensionistica, che verrà completamente devoluta al settore privato. Le classi più disagiate saranno respinte verso condizioni di vita ancora peggiori. La difesa dell'ambiente passerà in secondo piano, così come la protezione del consumatore dalle manipolazioni dell'industria agricola ed alimentare.
La mancanza di una significativa maggioranza al Congresso potrà comunque porre qualche ostacolo all'azione del nuovo presidente. E' probabile che vedremo un grande immobilismo. Ma le tendenze nate sotto Reagan e Bush senior e mai cessate sotto Clinton proseguiranno: concentrazione della ricchezza della nazione in un numero sempre minore di mani, peggioramento delle condizioni di vita delle minoranze disagiate, privatizzazione dei servizi.
Già ora gli Stati Uniti hanno indici di benessere complessivo scadenti, a parte il PIL, perché una parte significativa della popolazione vive in condizioni da terzo mondo. Visto che Clinton non ha fermato tale tendenza, da Gore ci saremmo potuti attendere tutt'al più una certa azione di rallentamento. Meglio che niente, comunque.
Se però consideriamo la politica delle cannoniere del segretario di stato di Clinton, signora Albright, forse dal probabile nuovo segretario, il generale Powell, possiamo aspettarci addirittura di meglio. Basta ricordare l'episodio, accaduto quando Powell era capo di stato maggiore, in cui la gentile signora propose allo sconcertato generale di fare maggiore uso bellico reale delle forze armate americane, per utilizzarne la meravigliosa potenza.
Probabilmente gli americani poveri e della classe media staranno un po' peggio, gli americani ricchi staranno meglio e noi non americani avremo meno rischio di veder volare missili in giro per il mondo.
Il calo delle borse, che sembra ormai seguire costantemente le vittorie elettorali delle destre, potrebbe significare che la grande finanza preferisce che le politiche di globalizzazione siano svolte con cautela dalla sinistra, piuttosto che disinvoltamente dalla destra.
Torniamo però alla questione della differenza tra gli schieramenti. Userò i termini destra e sinistra, per evidenti ragioni di chiarezza, visto che i termini centrodestra e centrosinistra sono puri eufemismi, ed esporrò anche le mie considerazioni sulle questioni in gioco, al di là delle posizioni dei gruppi politici.
Temo che la destra accelererebbe la distruzione del sistema sanitario pubblico, del sistema pensionistico, della tutela del lavoro dipendente e della scuola pubblica. Viste certe posizioni assunte da Alleanza Nazionale, possiamo aspettarci addirittura rischi per la libertà di stampa e di espressione, già abbastanza limitata oggi. Ma non sono certo di quali azioni potrà intraprendere la sinistra nel verso opposto. A questo proposito, trovo preoccupante la scelta di Rutelli come candidato alla funzione di presidente del consiglio: la sinistra si è posta sul piano della destra, presentando un individuo telegenico che possa acquisire voti con l'aspetto e la parlantina. Ma il pubblico a cui si rivolge tale personaggio è quel medesimo pubblico che seguirà piuttosto la destra. Il suo programma differirà da quello della destra solo per una certa moderazione dei toni.
Ricadiamo quindi nella situazione americana: la sinistra rischia di perdere perché insegue la destra sul suo campo, perdendo i voti del suo elettorato specifico. Ma perseguire una politica di sinistra è impossibile, perché si entrerebbe in urto col sistema del potere finanziario mondiale. Di nuovo lo stallo, e la scelta tra destra sfrenata e destra moderata, camuffata sotto il nome di sinistra. Il parallelo con l'America si può estendere, perché anche in Italia abbiamo un Nader: si chiama Bertinotti.
Alberto Cavallo, 16 dicembre 2000
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