Personalmente, nonostante i forti legami tra il mio modo di pensare e quello dei filosofi empiristi della scuola anglosassone, rimango legato a Kant per quanto riguarda l'etica. Recentemente ho trovato nuovi spunti in Daniel Dennett.
In "L'idea pericolosa di Darwin", Dennett sostiene l'importanza delle regole per consentire nella pratica quotidiana le scelte etiche. Giustamente egli osserva che, in generale, i filosofi affrontano l'etica da un punto di vista eccessivamente astratto: i criteri da essi approfonditamente studiati risultano inapplicabili nella vita reale. Il punto di vista utilitaristico richiede una mole esorbitante di considerazioni per consentire di fare previsioni sulle conseguenze di un'azione, con un potenziale regresso all'infinito: infatti, come si giudica il valore della situazione futura creata da una catena di eventi? Se si conduce un'analisi delle conseguenze, infatti, occorre comunque un criterio per valutare queste ultime. Tale criterio non può che fondarsi su regole statiche, esattamente come nei programmi di computer per il gioco degli scacchi. Questi programmi analizzano le possibili mosse successive, ma dopo un certo numero di mosse si fermano ed assegnano un valore alla situazione prodotta dall'ipotetica sequenza; se così non facessero, rischierebbero di impiegare un tempo di elaborazione eccessivamente lungo, se non infinito.
E' chiaro che dobbiamo valutare le conseguenze delle nostre azioni, ma per valutarle non possiamo procedere all'infinito a prevedere le conseguenze delle conseguenze: dobbiamo avere norme di valutazione applicabili ad una situazione data.
Dennett non abbraccia la posizione dell'etica razionalistica, ma osserva che sono necessarie regole per consentire di giungere ad una decisione. Per determinare tali regole, ricorre a riferimenti alla teoria dei giochi che, a mio parere, riportano ad un atteggiamento kantiano. Infatti alla base dell'etica kantiana è il concetto di universalità della massima, che si può esprimere in forma sintetica come la condizione secondo la quale ogni essere razionale giunge alla medesima decisione, essendo posto in una situazione data. Il modo di ragionare della teoria dei giochi parte appunto dal presupposto che tutti i partecipanti facciano uso della ragione, e quindi giungano alla medesima conclusione. La vera difficoltà è che gli esseri umani, in realtà, non si comportano in modo razionale. Dennett solleva il problema e coglie un punto importante.
Se soltanto la ragione consente di conciliare i punti di vista, ma i singoli individui fanno scelte in sé non razionali, allora non dobbiamo gettare via il metodo razionale, ma dobbiamo applicarlo per l'appunto alla funzione di conciliazione dei fini degli individui. Tali fini, per conto loro, non sono invece deducibili razionalmente. Possiamo esprimerci in modo più efficace, dicendo che il fine è l'umanità come si esprime negli individui: giungiamo così alla seconda formulazione dell'imperativo categorico kantiano: "agisci in modo da trattare l'umanità, in te stesso e negli altri, sempre anche come un fine e non soltanto come un mezzo".
L'unico fine generale individuabile dall'etica non può quindi essere che l'umanità, intesa non in senso astratto ma nella massima concretezza, negli esseri umani, in tutti gli esseri umani come individui. Si badi bene, non sto dicendo che il fine è il bene degli esseri umani, ma che il fine sono gli esseri umani. Il bene non è un fine adeguato, perché prima di tutto dovrebbe essere definito, ed ognuno ne darebbe una definizione diversa: è bene vivere in una grande città o in una foresta? studiare filosofia o giocare al pallone? I benintenzionati spesso causano danni spaventosi, cercando di imporre ad altre persone ciò che essi pensano essere il bene di quegli altri.
Non possiamo, dunque, adottare la regola che si deve rendere massimo il bene dell'umanità, perché non riusciremo mai a definire in generale che cosa sia utile e buono. Quale altro criterio vi può essere, infatti, se non la valutazione di ogni individuo dal suo punto di vista? E come possiamo conciliare queste valutazioni? Per definire una eventuale "funzione globale di soddisfazione", che esprima il benessere di tutti opportunamente conciliato, non potremmo che partire dal principio che tutti sono equivalenti, quindi dall'etica delle regole. Non faremmo altro che ritrovare il concetto del rispetto reciproco, senza riuscire comunque a valutare il bene o la soddisfazione o la felicità di tutti. Non solo ogni individuo ha sempre criteri propri, individuali, per definire il proprio bene, ma anche il bene collettivo non sembra definibile. È meglio, ad esempio, un rapido sviluppo economico, che dia a tutti grandi quantità di beni di consumo, oppure una struttura sociale che freni lo sviluppo economico per consentire una maggiore equità sociale ed un minore sfruttamento delle risorse naturali?
La regola kantiana è semplice e facile da applicare, perché prescinde dalla definizione del bene e ci parla solo del punto essenziale, come dobbiamo trattare le persone. Ne possiamo dedurre regole pratiche specifiche, che generalmente assumono forma di negazione, semplicemente perché questa impostazione dell'etica non vuole indurci a perseguire un presunto bene, ma tende a limitare le azioni di ciascuno per conciliarle con le esigenze degli altri.
La prima classe di regole derivate può somigliare all'insieme dei precetti buddisti per i laici:
E' molto importante osservare che, in base a queste regole, nessun eventuale fine di alta utilità per l'umanità in generale può essere perseguito al costo di trattare qualcuno come un mezzo, cioè usargli violenza fisica o morale. Una semplice analisi delle conseguenze potrebbe indurre, invece, ad accettare un male immediato per qualcuno in nome di qualche utile futuro per altre persone. Senza un saldo principio universale di questo genere rischiamo ad esempio di accettare la condanna (deliberata) di un innocente in nome della funzione deterrente della pena per eventuali futuri violatori. Potremmo addirittura giungere a ritenere accettabile l'uso della violenza repressiva nei confronti di intere categorie di persone, se non dell'intera popolazione, in nome di un ipotetico ordine sociale futuro in cui tutti vivranno meglio, come si è fatto nei regimi comunisti.
Il sacrificio di un individuo per un fine che riguarda altri è ammissibile in un solo caso: che sia fatto per sua scelta personale, consapevole e non soggetta a costrizioni o influenze. La consapevolezza e la libertà della scelta fanno sì che tale individuo tratti anche se stesso come fine, pur sacrificandosi.
Come si devono trattare coloro che violano le regole? Il principio base resta sempre quello che ogni persona è equivalente ad ogni altra, quindi si deve sempre tener conto del punto di vista dell'altro. Non possiamo, quindi, neppure punire un colpevole? Non possiamo, infatti, semplicemente punire. La pena per chi si macchia di delitti deve sempre tenere conto anche dell'umanità del colpevole, per quanto orrendo sia il suo delitto. In caso contrario, sarebbe vendetta e porrebbe chi la infligge sul medesimo piano: la pena di morte, ad esempio, non è accettabile, perché tratta il colpevole come un oggetto, anziché come una persona, e induce i rappresentanti dello Stato a commettere un omicidio a sangue freddo. L'incarcerazione deve essere intesa come misura per proteggere le vittime reali o potenziali da un personaggio ancora pericoloso, in quanto non ravveduto, oltre che come procedimento per non consentire al colpevole di godere dei frutti del delitto, a scopo dissuasivo per potenziali delinquenti. Non si può mai, tuttavia, negare al colpevole la possibilità di ravvedersi, anzi la si deve favorire.
Alberto Cavallo, 2 gennaio 1998
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