LA STRAGE DEGLI ITALIANI


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Pagina pubblicata il 16 novembre 2003

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Alla pagina indice sulla politica internazionale


La strage

Il 12 novembre 2003 le forze italiane in Iraq sono state sottoposte ad un attacco senza precedenti: due veicoli carichi di uomini armati e di esplosivo si sono lanciati contro la sede dei carabinieri a Nassiriya e l'hanno distrutta, causando 19 morti tra gli italiani e 8 tra gli iracheni presenti. Negli ultimi anni non era mai accaduto che una forza militare italiana all'estero subisse perdite simili, dobbiamo tornare indietro fino al 1961 in Congo per trovare un precedente paragonabile, quando 13 avieri furono massacrati mentre partecipavano ad una missione ONU di pacificazione.

L'evento è ancor più doloroso, perché i nostri carabinieri e soldati dell'esercito stavano svolgendo nel modo migliore il compito di mantenere l'ordine e fornire assistenza alla popolazione locale. Non mi sembra il caso di scomodare vocaboli altisonanti come "eroe", stiamo parlando di persone normali che svolgevano un con onestà, dedizione e profonda umanità un lavoro difficile, utile ed anche pericoloso, parecchi con il fine più che onorevole di guadagnare un po' di denaro in più da destinare alle proprie famiglie. Esattamente il tipo di persona che più di ogni altra dobbiamo avere in mente ogni volta che riflettiamo sugli eventi del mondo: la persona onesta, seria e disponibile, pronta a fare la propria parte ed anche di più, senza chiedere null'altro che un modesto compenso.

L'eccesso di retorica così come le polemiche sono da evitare in questo momento. Prima di tutto, si deve rendere omaggio alle vittime, che ci stanno particolarmente a cuore come nostri connazionali e nostri rappresentanti di fronte al mondo in questo tragico momento. Questo non vuol dire che si debba rinunciare a ragionare su quanto è accaduto, anzi occorre pacatamente rifletterci, con molta attenzione.

Le azioni buone restano tali anche in un apparente fallimento. Comunque vadano le cose in Iraq, ciò che di buono è stato fatto non sarà mai stato vano. Chi muore non svanisce, ma è sempre presente negli animi di coloro che lo amano e di coloro che hanno beneficiato della sua bontà.

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La strage più grande

Per noi in quanto italiani la morte dei nostri connazionali assume un rilievo particolare. Tuttavia non dobbiamo dimenticare quanti sono morti ed ancora stanno morendo nella guerra dell'Iraq, che non è ancora finita. Centinaia di soldati americani ed inglesi, migliaia di combattenti e di civili iracheni. Ogni volta che qualcuno muore in guerra, chiunque sia, di qualsiasi nazionalità, con o senza una divisa, ricordiamo che è un essere umano che ha un padre, una madre, spesso una famiglia propria, amici - un intero mondo che viene gravemente ferito dalla perdita. Per questo sono contrario in linea di principio alle guerre: soltanto in casi estremi si deve prendere in considerazione la possibilità di scatenare un conflitto. Lo abbiamo detto in molti quando si era ancora in tempo, purtroppo senza risultato. Oggi se ne pagano le conseguenze.

La missione italiana in Iraq non è una normale missione di pace, come quelle in Bosnia e Kosovo o perfino quella in Afghanistan. In Iraq c'è stata una guerra di aggressione unilaterale, alla quale soltanto pochi stati hanno partecipato direttamente e non molti altri hanno dato appoggio; quando è stato deciso l'invio della forza italiana, non vi era alcun accordo di pace né vi era un mandato dell'ONU. In seguito l'ONU si è pronunciata, in modo limitato ed ambiguo, ma sul campo non è cambiato granché: un attacco militare seguito da un'occupazione, una guerra mai finita. Il 12 aprile scorso diedi un punto di vista sulla situazione, intitolando la pagina La tragedia è appena cominciata. Che cosa si possa fare per porle fine è difficile a farsi più che a dirsi.

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Che fare ora

Si sta cominciando a discutere sull'eventuale rientro della missione militare italiana in Iraq. La maggioranza delle forze politiche vuole che prosegua, senza particolari cambiamenti. In realtà dobbiamo porre alcuni punti fermi.

L'Italia non si è presentata in Iraq come nazione pacificatrice ma come alleata degli Stati Uniti. Anche se di fatto carabinieri e soldati hanno svolto un'azione del tutto analoga a quelle già svolte o in corso di svolgimento in contesti di "mantenimento della pace", la situazione irachena è diversa, in quanto si è trattato di un'invasione seguita da un'occupazione. I movimenti islamisti ora percepiscono l'Italia come un paese nemico, anche se i nostri uomini non hanno svolto alcuna azione di attacco, perché siamo intervenuti in soccorso degli americani che sono a tutti gli effetti una forza occupante. Quindi le nostre forze in Iraq ma anche il nostro stesso territorio nazionale sono suscettibili di attacco. Questa non è più una minaccia ma un fatto.

La catastrofe di Nassiriya è stata in parte dovuta a questa discrepanza: eravamo convinti di partecipare ad una missione di pace come le altre, sia pure in un ambiente più difficile del solito, e non ci siamo resi conto di essere visti come nemici dalle forze irachene di resistenza. L'essersi guadagnati il rispetto se non addirittura l'amicizia della popolazione locale non è stato sufficiente, perché siamo in un contesto di guerra vera, non di peacekeeping.

L'unica via che può portare alla pacificazione dell'Iraq è la sostituzione dell'occupazione angloamericana con una gestione dell'ONU, che apra la via alla ricostruzione autentica dello stato iracheno. Una ricostruzione che sia svolta sotto la guida americana sarebbe considerata un'imposizione ostile. Le forze occupanti se ne devono andare, per essere sostituite da una vera forza di pace, composta di paesi considerati neutrali da tutte le parti irachene. Escludendo quindi Stati Uniti e Gran Bretagna, ma anche ad esempio la Turchia. Dovrebbero invece intervenire paesi arabi e paesi estranei all'area come a puro titolo di esempio l'India.

La presenza italiana rimarrebbe in tale contesto sotto una luce ambigua. E' evidente che nel mondo arabo c'è chi percepisce l'Italia di oggi come troppo legata agli Stati Uniti per considerarsi neutrale. Se fossimo veramente neutrali, sarebbe perfettamente proponibile una partecipazione ad una forza di pace; nel contesto di oggi, probabilmente è preferibile che ad un ritiro USA si accompagnasse anche il nostro.

La perdita della posizione di neutralità è unicamente da imputarsi all'improvvida politica del governo italiano, che ha preso sul conflitto una posizione di cui forse non ha nemmeno percepito la gravità. Francia e Germania hanno tenuto un atteggiamento ben diverso, che a lungo termine darà risultati positivi, mentre la fretta del sig. Berlusconi di correre in soccorso dell'alleato americano ci sta costando cara.

Per rimediare agli errori commessi occorre ora adoperarsi perché l'Iraq passi sotto il controllo di un governo provvisorio organizzato e sostenuto non dagli Stati Uniti ma dall'ONU, per riorganizzare lo stato e giungere infine alla sua piena restaurazione. Occorre tra l'altro insistere affinché gli invasori rinuncino ai frutti malefici delle loro azioni: i contratti alle aziende private amiche di esponenti del governo americano.

Non mi illudo che ci sia alcuna possibilità che questa soluzione sia adottata. Gli angloamericani resteranno e tenteranno sanguinosamente di mantenere il controllo. Se anche ci riusciranno, avranno posto le basi per un'instabilità a lungo termine. Un eventuale governo filooccidentale dovrà in futuro affrontare una temibile opposizione islamista, con frange estremiste armate; nel caso peggiore, un ritiro disastroso delle forze filoamericane sarà seguito dall'istituzione di un regime teocratico simile a quello dell'Iran o peggio.

E' bene quindi studiare un piano di ritiro delle forze italiane, per non essere coinvolti nei disastri futuri, qualora l'opzione più ragionevole, come purtroppo si può prevedere, non si possa realizzare.

Alberto Cavallo

16 novembre 2003

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