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Etica e metafisica

Rivisitazione dei postulati della ragion pratica



Pagina pubblicata il 22 dicembre 2002

Indice


Le Domande Fondamentali

Chi ha avuto la pazienza di leggere le altre pagine che ho pubblicato sul tema dell'etica (etica e regole, etica minima, etica e politica), sa già che i miei riferimenti principali sono due: Kant e il buddismo. Non casualmente, uno è in Occidente ed uno in Oriente. Sa anche che ho promesso di proseguire il cammino con ulteriori sviluppi, anche se ho promesso grande prudenza. Dopo la digressione sulla politica, abbandono un po' la prudenza ed affronto di petto, dal punto di vista dell'etica, le Domande Fondamentali ed il modo in cui esse hanno avuto risposta dai filosofi a cui mi ispiro.

Le Domande Fondamentali di cui parlo sono quelle che da sempre l'umanità si pone su se stessa e sul mondo:

Queste domande appartengono propriamente alla metafisica. Ma Kant ebbe la grande idea di affrontarle separatamente sul piano etico, dopo aver dimostrato nella Critica della ragion pura che non è possibile dare ad esse risposta sul piano, appunto, della metafisica razionale.

Nella Critica della ragion pratica, al capitolo II della Dialettica, Kant espone i postulati della ragion pratica: l'anima è immortale, esiste un Dio che è persona ed è signore dell'universo. Non dimostra queste due tesi, non le pone quindi come teoremi ma come postulati, che sono verità su cui si conviene per giudizio comune, senza poterne dare dimostrazione. Ne dà, bensì, una giustificazione argomentata, sulla base dell'etica.

Come abbiamo già visto nell'etica minima, le regole di base che devono ispirare il nostro comportamento non si deducono da principi metafisici ma si sostengono da sé. In questo, Kant e Buddha Sakyamuni sono perfettamente d'accordo tra loro. Il principio che soggiace a qualsiasi etica di tipo razionale risulta essere il medesimo, che Kant ha delineato in modo particolarmente rigoroso, ma che risulta presente anche nel buddismo. Ho tentato poi di mostrare come le regole comportamentali buddiste siano perfettamente compatibili con l'impostazione kantiana, addirittura come la Metafisica dei costumi di Kant sia in parte contraddittoria rispetto alla ragion pratica, ad esempio sul tema della pena di morte, mentre il pentalogo buddista è perfettamente allineato con essa.

Ma il nodo fondamentale dell'etica, a cui in qualche modo ho accennato nel capitolo conclusivo dell'etica minima, rimane da sciogliere: che relazione c'è tra comportamento morale e felicità? Se pure la moralità non consiste, come direbbero invece gli utilitaristi, nel cercare razionalmente la felicità, tuttavia anche una morale razionalista deve ammettere che in qualche modo il comportarsi bene deve legarsi all'essere felici. Anzi, l'etica buddista si presenta appunto come un metodo per liberarsi dalla sofferenza. Kant propone come risposta i postulati della ragion pratica, ripristinando il legame con la metafisica, che aveva spezzato nell'altro verso con la ragion pura. Vediamo di riassumere il suo ragionamento e capire come lo si possa rivisitare alla luce di una diversa tradizione filosofica.

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Il sommo bene

Nella dialettica della ragion pratica Kant chiarisce prima di tutto che lo scopo della filosofia, come i greci per primi la intesero, è la formulazione della dottrina della saggezza, che attraverso la ragione cerca di trovare la via per raggiungere il sommo bene. Filosofia, anche Kant lo sottolinea, significa amore della saggezza, non solo della sapienza. Seguendo il nostro percorso parallelo, notiamo che secondo Buddha Sakyamuni lo scopo della sua ricerca era appunto il conseguimento della liberazione dell'umanità da tutte le sofferenze, attraverso un metodo che fosse universale ed insegnabile a tutti, quindi razionale. Il Buddha paragona la sua scienza alla scienza medica, che persegue un fine analogo in un campo più ristretto.

Qual è dunque il sommo bene? Secondo Kant è l'unione della virtù e della felicità. La virtù è fondamentale, perché un essere razionale che non segua la legge morale non è buono, non detiene alcun bene. Chi persegue la propria felicità in modo immorale sceglie deliberatamente di opprimere le altre persone e quindi danneggia irrimediabilmente l'umanità non solo negli altri ma anche in se stesso. Crea infatti una contraddizione insanabile nella propria persona, e la può controbilanciare soltanto se le sue opere malvagie gli procurano effettivamente felicità. Rinunciando all'uso pratico della ragione, l'individuo immorale si rende però prigioniero dei propri desideri, completamente determinato da essi. Ogni sua azione sarà dettata da scopi limitati e mutevoli, raggiunti i quali non proverà altro che nuovi desideri. Kant definisce eteronomo il comportamento dettato dalle passioni, autonomo quello dettato dalla ragion pratica che si traduce nella legge morale.

Buddha analizza in modo molto più dettagliato il comportamento passionale, eteronomo, dell'essere umano. Sottolinea in modo analogo che qualunque felicità così ottenuta va a scapito di una parte della persona, quindi non può definirsi felicità autentica; inoltre, consistendo nel soddisfacimento di bisogni puramente materiali, è inevitabilmente limitata e caduca. Va quindi oltre, sostenendo che l'infelicità è l'effetto inevitabile dell'essere soggetti ai desideri, e che soltanto la liberazione da essi può dare felicità. L'umanità soffre perché si attacca a cose che non hanno consistenza: qualunque fine edonistico è per sua natura di breve durata, e la sua cessazione causa sofferenza. Anche i fini non edonistici ma comunque dettati da atteggiamenti passionali sono inconsistenti e quindi fonte di infelicità.

Resta vero però che la felicità è parte costituente del bene. E' vero che l'individuo morale può essere felice soltanto se è virtuoso, perché, come nota Kant, quando si comporta immoralmente diviene infelice perché rimprovera se stesso, cancellando l'eventuale vantaggio materiale ottenuto con l'azione immorale. E' anche vero, però, che in molte occasioni il comportamento morale è causa di sofferenza soggettiva. D'altro canto, l'individuo immorale è completamente succubo delle sue passioni, eteronomo.

L'antinomia della ragion pratica consiste in questo: che il sommo bene è impossibile, dato che senza virtù non vi è sommo bene, ma nel mondo la virtù non solo non garantisce la felicità, ma a volte la preclude. Sembra dunque che l'etica fallisca il suo scopo.

Ma analizzando i due termini dell'antinomia, Kant individua un'asimmetria che consente di trovarne la soluzione. Il fatto che la virtù non comporti la felicità è contingente e legato al mondo. Se intendiamo la felicità come soddisfacimento dei desideri, essa ci sfuggirà sempre, in quanto i desideri sono mutevoli e qualunque condizione materiale è transitoria. Ma è possibile interpretare la felicità come contentezza di sé e come libertà dalle inclinazioni. La contentezza di sé è quella che deriva dalla consapevolezza della propria virtù, mentre la virtù necessariamente comporta l'indipendenza dalle passioni e dalle inclinazioni. Questa contentezza è la sola che non è soggetta a svanire al mutare delle condizioni materiali; tuttavia essa non si può conseguire se la si persegue come fine della moralità, perché allora la si porrebbe come un'inclinazione riducendola sullo stesso piano di tutte le altre componenti della felicità materiale. Ciò che si deve perseguire è la moralità, e soltanto come risultato di questa si può giungere ad ottenere la contentezza, svincolata dalla contingenza del mondo, dato che nessun'altra felicità è possibile.

Ciò che più di ogni altra cosa mi stupisce e mi esalta è che Buddha confermerebbe in ogni punto il ragionamento di Kant che ho esposto - c'è differenza nella terminologia e nel contesto culturale, ma i contenuti fondamentali sono i medesimi. Secondo il buddismo si può ottenere la felicità soltanto svincolandosi completamente dalle inclinazioni, appunto perché ogni cosa del mondo fenomenico è caduca, e soltanto una condizione non appartenente a questo mondo può dare l'autentica felicità. Una differenza significativa però esiste, rispetto a Kant: Buddha fornisce un metodo per raggiungere questo tipo di felicità, mentre Kant si limita a dire che occorre comportarsi secondo la morale. Non ha torto, ma la via da lui proposta è molto dura e difficile. Se consideriamo le diverse scuole buddiste, possiamo affermare che ciascuna propone un metodo un po' diverso, sebbene tutte concordino sui punti fondamentali e riconoscano la validità delle altre, ma la maggior parte della dottina consiste appunto nello studio delle ragioni dell'infelicità e nello sviluppo di un metodo per sfuggirvi.

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L'immortalità dell'anima

La soluzione trovata da Kant all'antinomia della ragion pratica richiede che, per conseguire il sommo bene, si raggiunga la perfetta identità tra le intenzioni individuali e la legge morale. Soltanto il santo, per il quale ogni sofferenza materiale è insignificante e ogni azione è sempre dettata dalla moralità, può allora conseguire il sommo bene.

Lo stesso Kant si pone l'obiezione, che nessun essere finito e mortale potrà mai raggiungere pienamente la santità e quindi la felicità autentica. Soltanto una durata infinita dell'esistenza può consentire al singolo di progredire nella propria ascesa morale, fino a conseguire idealmente il sommo bene così definito. Occorre dunque postulare che l'individuo abbia un'esistenza infinita, quindi sia immortale in ciò che di lui è essenziale, affinché si possa dare un significato concreto al concetto di sommo bene. Non si tratta di una dimostrazione, perché non vi è la deduzione di una proposizione a partire da principi primi, ma soltanto un'argomentazione basata sui principi pratici dell'etica.

L'individuo, si deve notare, non raggiungerà mai nel tempo la condizione di santità e beatitudine, ma potrà soltanto migliorarsi sempre più. Se consideriamo però la sua esistenza sotto l'aspetto dell'eternità, che non è il procedere indefinito del tempo ma ciò che è al di là del tempo, il quale, a sua volta, per Kant non è una realtà oggettiva ma un'intuizione pura dell'intelletto, questo sviluppo indefinito si traduce in una presenza attuale del sommo bene. Dunque il sommo bene è reale per l'individuo, in quanto lo si consideri dal punto di vista dell'eternità, mentre rimane irraggiungibile nel futuro, ma indefinitamente avvicinabile, se si rimane nella dimensione del tempo. E' facile proporre l'analogia degli asintoti in matematica: la funzione 1/t tende a zero per t tendente all'infinito, quindi nella rappresentazione del limite ha effettivamente tale valore, ma nessun valore della funzione è uguale a zero per valori reali di t. La matematica spesso soccorre nella comprensione dei concetti filosofici, come si sa fin dal tempo di Pitagora, che scoprì di fatto l'esistenza di numeri non razionali (non riducibili a rapporti fra interi, qui ratio sta per rapporto, non per ragione), mandando in crisi la propria stessa filosofia basata sui numeri interi.

Al ragionamento di Kant non si può sfuggire: se dev'essere possibile unire virtù e felicità, allora la felicità deve ricondursi ad una diversa dimensione, e si deve postulare che l'esistenza umana possa estendersi in qualche modo al di fuori di un intervallo spaziotemporale definito.

Se però consideriamo attentamente i dettagli dell'argomentazione, ci accorgiamo di un punto cruciale che al grande filosofo tedesco è sfuggito, a causa della sua particolare estrazione culturale. Se si deve parlare di un'esistenza che si protrae oltre la semplice durata della vita umana, così da rendere possibile una crescita morale indefinita, il modello cristiano, per il quale abbiamo una sola esistenza umana limitata a cui segue un'esistenza eterna fuori da questo mondo, cade in difetto. L'esistenza eterna di cui parla Kant, per la parte che ricade nel dominio del tempo, dovrebbe piuttosto configurarsi come una successione di esistenze, non necessariamente tutte umane, ma singolarmente finite e mortali. Nel modello cristiano c'è posto per una sola esistenza mortale, mentre la successiva vita eterna è uniformemente dannata o beata, oppure, soltanto per i cattolici, può contenere un periodo di espiazione dei peccati, a cui seguirebbe comunque la beatitudine eterna.

Le filosofie indiane, invece, sono tutte concordi nel ritenere che l'individuo attraversi una successione lunga, anche se non necessariamente infinita, di esistenze mortali di tipo umano o anche non umano, intendendosi con questo da un lato esistenze perfino animali, dall'altro esistenze divine o semidivine. Nell'ambito di questa successione di esistenze, l'individuo ha la possibilità di perfezionarsi moralmente, così da ottenere condizioni di vita sempre migliori, fino a liberarsi completamente della mortalità e conseguire la perfetta beatitudine. Ogni caduta morale porta con sé, invece, una perdita anche di benessere ed una rinascita inferiore. Nel buddismo si ritiene che l'esistenza umana sia addirittura più favorevole di un'esistenza divina, poiché l'uomo dispone pienamente della consapevolezza, ma non dei poteri divini che portano alla superbia ed all'egoismo, causando poi la caduta a livelli infimi di esistenza infernale. Senza volermi addentrare nei dettagli di concezioni che comunque sono più da considerarsi come miti edificanti che come dottrine, devo sottolineare che è appunto fondamentale per le filosofie indiane il concetto del miglioramento continuo attraverso molte vite, per giungere infine alla completa liberazione dai mali della vita mortale.

Senza che con questo si possa dare dimostrazione di alcunché, dobbiamo accettare che la filosofia kantiana porta più coerentemente a postulare una catena di esistenze in miglioramento, piuttosto che la vita eterna dei cristiani.

Kant rifiuta esplicitamente misticismo e teosofia, ma non si accorge di essere molto vicino alle concezioni che ispirarono appunto quest'ultima, che costituì un primo tentativo di portare la filosofia indiana in occidente. Possiamo perdonarlo, per la sua conoscenza pressoché nulla delle filosofie dell'oriente nella loro forma originale. Oggi però non possiamo ricadere nel medesimo errore, perché a quelle filosofie abbiamo pieno accesso. Kant costruisce argomentazioni di notevole sottigliezza, per conciliare la sua filosofia col cristianesimo protestante, ma oggi possiamo sentirci liberi di abbandonare i dogmatismi di qualunque origine.

Ciò che Kant rigetta in modo chiaro è che sia possibile comunque conseguire il sommo bene in un tempo finito. L'unica via, secondo lui, è applicare la legge morale sempre e comunque, il sommo bene sarà conseguito soltanto nell'eternità. Ciò che dicono le scuole indiane, invece, è che ci sono metodi che consentono di migliorare se stessi in modo attivo, avvicinando quel momento, fino a poterlo ottenere effettivamente nel corso di una normale esistenza umana, seppure eventualmente dopo molte vite di sofferenza e crescita morale. Certo vi sono versioni volgarizzate che promettono la beatitudine con i metodi più strani, ma le dottrine autentiche affermano sempre che la liberazione si ottiene attraverso un impegno costante e non focalizzato sul risultato ma sul momento presente. Esattamente come dice Kant, cercare attivamente la beatitudine porta a perderla, applicare il metodo qui ed ora disinteressatamente porta a conseguirla.

In particolare, nella concezione buddista svanisce anche il concetto di anima come entità che sopravvive indefinitamente, in quanto essa si identifica con un altro oggetto di attaccamento. L'individuo è decostruito tanto da perdere la propria consistenza metafisica, tuttavia rimane la continuità delle esistenze, che non si lega ad essenze eterne ma al protrarsi del processo fenomenico, come la fiamma si può trasmettere da una candela ad un'altra, senza che nulla sia materialmente trasferito. In effetti il ragionamento di Kant riguarda il protrarsi dell'esistenza, ma nulla dice sull'anima come entità metafisica. Rimane quindi compatibile col buddismo da questo punto di vista.

L'impossibilità di ottenere la liberazione in un tempo finito, invece, è un punto sicuramente contraddittorio, peraltro insolubile. Kant nega assolutamente all'individuo la possibilità di raggiungere il risveglio, la piena comprensione, lasciandola soltanto come prospettiva per l'infinito. E' una petizione di principio, tutte le scuole indiane dicono l'opposto. Forse la verità sta davvero nel mezzo: è cosa per pochissime persone in ogni epoca storica, persone che altri non sono che i grandi maestri spirituali.

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L'esistenza di Dio

La felicità è la condizione per cui tutto avviene secondo i desideri e la volontà; se si è pienamente virtuosi, così accadrà solo per desideri e volontà determinati dalla legge morale, e la felicità, unita alla virtù, comporrà il sommo bene. Siccome la natura non è soggetta alla volontà individuale, affinché il sommo bene sia possibile e quindi la realtà possa adeguarsi ad una volontà moralmente determinata, occorre che il mondo sia governato da un'entità che sia essa stessa moralmente determinata e quindi sia intelletto, volontà e ragione. Un Dio dunque, che sia una persona perfetta e santa. E' questa l'argomentazione con cui Kant sostiene il postulato dell'esistenza di Dio, sulla base della ragion pratica.

Questa volta, per soddisfare la necessità di conciliare le proprie tesi con quelle della Chiesa protestante, Kant ha davvero introdotto una contraddizione nei suoi argomenti. La felicità di un essere pienamente morale, come egli stesso l'ha definita parlando del sommo bene e dell'anima, è contentezza di sé e libertà dalle inclinazioni. Non ha alcuna necessità di condizioni esterne favorevoli, di desideri che si realizzino nel mondo fenomenico. Una volta che ci si è liberati dall'eteronomia, dal dominio delle passioni, e si è realizzata la moralità piena, non si ha alcun bisogno di soddisfare desideri, in quanto ogni bene limitato appartenente al mondo fenomenico si rivela vuoto ed insignificante. Non c'è quindi bisogno di un Dio che forzi la natura sulla base di una volontà morale, perché la liberazione dalle inclinazioni ci porta già al di fuori di tale esigenza. Chi si libera trova già il sommo bene, senza aiuti metafisici.

Esiste però un postulato che dobbiamo formulare, meno restrittivo di quello kantiano. Occorre che la struttura della realtà sia tale da rendere possibile che la beatitudine del giusto, intesa correttamente come liberazione dalla schiavitù dei fenomeni, sia reale, e che invece il fenomeno sia sempre e comunque caduco e fonte di sofferenza. Così non ci sarebbe la possibilità di ottenere una beatitudine immorale nella realtà, ma le cattive azioni porterebbero sempre cattivi frutti, in qualche modo. Questo non richiede un agente assoluto che sia una persona, ma soltanto una determinata struttura della realtà. Credere che la realtà sia sottoposta ad un essere di tipo personale, simile quindi a noi, è un'illazione antropomorfica. Non abbiamo elementi per ritenere che vi sia una volontà ed un intelletto supremo. Ciò che possiamo arrivare a concludere è che tutti i ragionamenti che abbiamo fatto sono sensati, quindi la liberazione è possibile. Forse, una volta liberati, avremo accesso ad un livello di conoscenza per ora inconcepibile che ci rivelerà la struttura del Tutto, o forse non ci arriveremo mai. Ma non serve un Giudice o un Poliziotto supremo, è la realtà che cammina da sé sulla via che conduce al sommo bene, perché così essa è. Non possiamo dire che sia così per qualche volontà, su questo punto si può soltanto tacere.

Questi concetti si traducono, nel buddismo, nel concetto del nirvana e nella legge del karma. Karma vuol dire azione: se agisco male, produco frutti cattivi in me e negli altri, e viceversa. Nirvana vuol dire cessazione: la liberazione dal vincolo dei fenomeni è beatitudine. Buddha Sakyamuni rifiutò sempre di rispondere a domande sull'origine del mondo e sull'eventuale esistenza di un Dio personale, dichiarò anzi esplicitamente che sono questioni su cui è vano spendere tempo.

L'equivalente buddista dei postulati sono i Quattro Sigilli:

  1. i fenomeni sono impermanenti;
  2. ciò che è contaminato è infelice (cioè la schiavitù delle inclinazioni produce sofferenza);
  3. i fenomeni sono vuoti e privi di un sé;
  4. il nirvana è la pace.
Dimentichiamo le sciocchezze che circolano in occidente, al punto che vocaboli come karma e nirvana sono usati totalmente a sproposito. Il nirvana è la liberazione dal vincolo dei fenomeni, coincide con quello che Kant dice dell'individuo perfettamente morale: è contento perché non ha più inclinazioni e agisce spontaneamente in modo morale. Non è uno stato mentale o del corpo, né uno stato metafisico, un paradiso o altro, è soltanto la cessazione della schiavitù dei fenomeni. Non si può dimostrare che esista, occorre crederci, dopo aver seguito un opportuno percorso di ragionamenti e di esperienze soggettive. Qualunque felicità materiale è destinata a tradursi in sofferenza, perché finisce, come dice il primo sigillo. Se ci lasciamo trascinare da desideri ed inclinazioni, soffriamo, come dice il secondo sigillo. Noi stessi non siamo individui assoluti ed eterni ma un coacervo di elementi fenomenici, dice il terzo sigillo. E' possibile sfuggire a tutto questo, dice il quarto.

Non occorre che sia una volontà a guidare questo processo, anzi forse i concetti di volontà, intelletto, ragione sono incompatibili con un Essere Supremo. Perché vi sia volontà occorre che vi siano azioni incompiute, per Lui invece tutto sarebbe compiuto; perché vi siano intelletto e ragione occorre che vi siano oggetti da percepire e su cui ragionare, ma per Lui non vi sarebbero percezione o ragionamento su oggetti, solo realtà immediata. Kant sbaglia attribuendo a Dio le facoltà dell'uomo, su di Lui non possiamo fare affermazioni. Se vi è un creatore di questo mondo, sarà un essere molto più grande e potente e intelligente di noi, ma non sarà il Dio assoluto. Questo dicono infatti tutti gli indiani: Brahma ha creato questo mondo, ma Brahma è un essere limitato, sebbene immensamente più grande di noi. Ci sono infiniti mondi, ognuno col suo Brahma. Egli stesso morirà, e rinascerà ancora in altra forma: un uomo può rinascere come Brahma in un altro universo, Brahma può rinascere come uomo in un altro universo. L'Assoluto (Brahman al neutro, Dharmakaya, Tao) invece non è una persona ma un'entità indefinibile, su cui si fonda l'esistenza di tutti di noi non diversamente dall'esistenza di Brahma.

Ciò che la moralità ci obbliga a postulare è che la felicità vera, che è liberazione, sia possibile in qualche forma dell'esistenza. Le varie dottrine si devono vivere come Vie lungo le quali procedere nella crescita morale di cui parla anche Kant. E' cosa utile per molti avere un Dio a cui rivolgere le proprie preghiere, si sappia però che quella a cui ci si rivolge è un'immagine soltanto, di quella Realtà che umanamente non possiamo cogliere del tutto.

Alberto Cavallo, dicembre 2002

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