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Etica e politica



Pagina pubblicata il 3 novembre 2002, riveduta il 30 dicembre 2002

Indice


Un nuovo percorso da cominciare

Concludendo l'articolo sull'etica minima affermavo di aver affrontato soltanto il fondamento comune che, a mio parere, deve soggiacere a tutto l'edificio dell'etica. Da questo punto di partenza hanno origine molti percorsi diversi, ed allora pensavo principalmente a quelli di tipo spirituale, orientati comunque ad un miglioramento della vita della persona, attraverso la crescita della consapevolezza. Le circostanze dei tempi ed un'importante lettura mi hanno indirizzato invece ad affrontare un tema difficile e però attualissimo: il rapporto tra etica e politica.

La lettura a cui mi riferisco è lo splendido libretto di Luciano Canfora, Critica della retorica democratica (Laterza, Bari 2002). In poche pagine l'illustre filologo classico affronta i temi cruciali della politica di oggi e di sempre, con chiarezza e concisione straordinarie. Tenendo come punto di riferimento il termine democrazia e l'uso che se n'è fatto nelle diverse epoche, a partire naturalmente dal mondo classico, affronta i temi cruciali della politica: in che termini si contrappone la democrazia ad altre forme di governo? è democrazia quella in cui viviamo nell'Occidente di oggi? qual è la differenza tra destra e sinistra? qual è oggi il ruolo della sinistra? che cosa ha rappresentato la Russia sovietica, e qual è il senso della sua caduta e della trasformazione che ne è seguita? che regime è quello della Cina di oggi?

Non intendo riassumere gli argomenti di Canfora. Consiglio caldamente di leggere il libro, di cui condivido sostanzialmente tutto. Mi limito a proporre un punto cardine, che per me è una verità ma anche una sfida: tutti i regimi sono in realtà oligarchie, più o meno modificate da elementi di altro tipo.
 

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Quale democrazia?

Nell'etica minima ho affermato che l'unico regime etico è appunto la democrazia. Ora mi associo a chi dice che sostanzialmente la democrazia in senso stretto non esiste: dobbiamo dedurne che non esistono regimi compatibili con l'etica? In un certo senso sì, ma è un fatto banale: sappiamo benissimo che il mondo in cui viviamo non è conforme all'etica, e che quest'ultima è un riferimento a cui ci ispiriamo, senza che sia mai possibile metterla in pratica compiutamente. Nella politica, più che in altri campi, è stridente il contrasto tra ciò che dovrebbe essere e ciò che è. Quel breve accenno contenuto nell'etica minima dev'essere ora chiarito ed approfondito.

Purtroppo esiste una grandissima confusione sui termini del linguaggio politico. Nell'etica minima ho usato la parola democrazia in modo non tecnico e alquanto impreciso. L'affermazione che ho fatto in quella sede deve essere approfondita e chiarita. La considerazione etica è semplice: la forma di governo deve essere tale da trattare tutti gli esseri umani come tali, e non semplicemente come oggetti di dominio. Quindi, innanzitutto, cittadini e non sudditi. Il regime deve godere del libero consenso dei soggetti e tutti devono essere trattati da esso come persone umane nel pieno della propria dignità. Cerchiamo dunque di riassumere gli elementi che dovrebbero caratterizzare un regime siffatto:

  1. inviolabilità della persona nella sua integrità fisica e morale;
  2. libertà di opinione, di espressione, di religione;
  3. uguaglianza dei cittadini di fronte allo Stato;
  4. partecipazione dei cittadini all'esercizio del potere;
  5. garanzia delle condizioni necessarie ad una vita dignitosa per ogni cittadino;
  6. governo della legge (stato di diritto).
La "democrazia" in senso stretto, come ricorda Canfora, è il potere della maggioranza. Questo non assicura affatto il rispetto della persona: le minoranze ed i singoli devono essere protetti dagli arbitri che la maggioranza può commettere. Ricordiamo come Socrate fu democraticamente condannato a morte nell'Atene del 399 a.C., da una giuria popolare rispettosa delle leggi e regolarmente estratta a sorte. La democrazia di cui parlo è stata realizzata in buona misura dallo stato liberale, come si è configurato storicamente nell'era moderna. Quello che oggi sta scomparendo, sotto la dittatura del capitale finanziario.

I punti che ho elencato sono comunque, secondo me, principi generali validi in ogni tempo ed in ogni luogo.

L'inviolabilità della persona discende direttamente dal principio fondamentale dell'etica. Ogni essere umano deve essere trattato come un fine in se stesso, quindi non può mai essere sottoposto a trattamenti che ne violino l'integrità fisica e psichica. Abbiamo già visto come questo faccia nascere un conflitto per quanto riguarda il trattamento dei criminali, ma abbiamo anche chiarito i termini della questione. Il trattamento del delinquente deve essere tale da poter essere accettato da un colpevole che riconosca la propria colpa. Dovrà includere quindi provvedimenti atti ad impedirgli di godere i frutti dei propri delitti ed a risarcire il danno per quanto possibile, oltre che, per un irriducibile, impedirgli di arrecare altri danni agli altri; non dovrà però danneggiarlo nella sua propria umanità oltre quanto sia strettamente necessario. Ne consegue che la pena di morte, la tortura, le mutilazioni non sono ammissibili e devono essere esplicitamente escluse per legge. L'incarceramento è necessario agli scopi leciti di cui abbiamo parlato, ma deve avvenire in condizioni umanamente accettabili.

Il principio dell'inviolabilità comporta anche le garanzie generali dei diritti civili. Nessuno potrà essere arrestato o imprigionato in modo arbitrario, sarà sempre richiesto un provvedimento motivato e conforme alla legge da parte di un'autorità legittima. Non potranno essere considerate crimini le espressioni di dissenso rispetto all'autorità, se non accompagnate da azioni concretamente mirate a sovvertire le istituzioni, in quanto la libertà di opinione è strettamente connessa col considerare ciascuno come fine in sé. Dovendo mirare alla conciliazione delle posizioni individuali, ciascuna delle quali in principio è ugualmente degna, è necessario garantire la libertà di avere e di esprimere opinioni proprie. La libertà di opinione e di espressione include necessariamente la libertà di culto religioso: ciascuno dev'essere libero di professare la religione che meglio crede, purché l'esercizio di questa libertà non entri in conflitto con i principi generali della convivenza, ad esempio attraverso lo scontro violento con seguaci di altre fedi.

L'uguaglianza dei cittadini discende anch'essa con immediatezza dal principio fondamentale. Non dovranno esistere norme che privilegino questa o quella categoria di cittadini sulla base di un'appartenenza di qualsiasi genere, razziale, etnica, culturale, sessuale, sociale. A questo proposito nasce una questione molto grave: come trattare lo straniero, chi non è cittadino ma si reca nel territorio dello Stato. Non vedo come si possa negare l'accesso a chiunque venga con intenzioni pacifiche e rispetti le leggi locali; per l'acquisizione dei pieni diritti di cittadinanza, dovrebbe essere sufficiente la dimostrazione chiara ed esplicita del proprio impegno a far parte della collettività ospitante, salvo un periodo di verifica nel tempo di tale impegno. Nel frattempo lo straniero sarà sottoposto a tutte le leggi a cui è soggetto il cittadino.

L'uguaglianza richiede anche la partecipazione dei cittadini all'esercizio del potere. Nessuno dovrà trovarsi di fronte a decisioni prese senza tenere in alcun conto la sua opinione, la cui libertà come abbiamo detto dev'essere garantita. Non si può accettare che una minoranza chiusa legiferi e comandi per tutti, perché questo andrebbe contro il principio di non discriminazione.

La garanzia della persona include anche quanto occorre per dare a ciascuno un'esistenza dignitosa. La mancata assistenza a chi è nel bisogno è immorale, come abbiamo visto nell'etica minima. La mancanza dei minimi requisiti per una vita umanamente dignitosa svuota completamente le libertà ed i diritti politici: chi non ha da mangiare non può esercitare il suo ruolo di cittadino. E' dovere della collettività, quindi dello Stato, fornire almeno assistenza sanitaria e mezzi di sussistenza minimi a tutti. Questo punto contraddice in modo forte l'ideologia del liberismo, secondo la quale importano soltanto le libertà, e ciascuno deve assicurarsi la sussistenza con le proprie forze. Si tratta di una posizione non compatibile con l'etica, che invece impone la solidarietà. L'uguaglianza di fronte alla legge è nulla e vuota in presenza dell'ingiustizia sociale: vale unicamente per la minoranza dominante.

Il governo della legge significa che tutti, comprese le più alte cariche dello Stato ed i detentori di grandi ricchezze, sono soggetti alla legge, senza eccezioni. Senza questa condizione, tutte le altre sono vane, perché le garanzie legali e procedurali di cui abbiamo parlato sarebbero svuotate di ogni contenuto concreto. Occorre notare che la soggezione alla legge vale anche per la maggioranza degli elettori: nemmeno la volontà della maggioranza dovrà avere la possibilità di superare le disposizioni di legge, e dovrà esistere una costituzione, vale a dire un insieme di norme di più alto grado, considerate immutabili rispetto ad un semplice voto di maggioranza e rivedibili solo con procedure particolari.

Nessun regime realmente esistente od esistito soddisfa pienamente le condizioni che abbiamo elencato. Non si deve però cadere nel vizio del massimalismo, per cui ogni grado inferiore alla totalità equivale allo zero: ciascuno Stato e ciascuna società umana è conforme ad esse in una misura variabile, e l'impegno politico delle persone moralmente consapevoli deve essere teso ad una loro realizzazione più estesa, pur nella consapevolezza che non sarà mai possibile ottenerla in modo perfetto.

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Le forme di governo

Come si è visto, non abbiamo affrontato direttamente l'argomento della forma di governo, in quanto abbiamo soltanto formulato alcuni principi regolatori. Il termine "democrazia" propriamente definisce quella forma di governo in cui il potere appartiene "al popolo". Perché si abbia democrazia in senso stretto occorre che tutte le decisioni significative siano prese dal popolo in base al principio di maggioranza. Questo avveniva nell'Atene antica, dove esisteva un'assemblea generale del popolo (ecclesìa) che deliberava a maggioranza; oggi sarebbe possibile realizzare questo tipo di istituzione servendosi dei mezzi telematici, e parzialmente essa esiste, attraverso il metodo dei sondaggi. I politici di oggi tengono in grande considerazione i risultati dei sondaggi, che equivalgono ad una consultazione popolare immediata, come quella del'ecclesìa ateniese, ma almeno per ora nessun paese ha reso istituzionale il ricorso al sondaggio. Nelle istituzioni della Repubblica italiana il principale elemento di democrazia è l'istituto del referendum, che però è fortemente limitato, dato che occorrono raccolte di firme e la consultazione può riguardare solamente l'abrogazione di leggi esistenti. Il referendum confermativo è previsto soltanto per le modifiche costituzionali. L'elezione dei rappresentanti popolari in parlamento è una forma di democrazia indiretta, in cui il popolo delega ad un gruppo di persone il compito di esprimersi a proprio nome. Quando si parla genericamente di democrazia, oggi si intende solitamente un regime dotato di un sistema parlamentare o presidenziale con elezione dei rappresentanti nelle assemblee legislative e spesso anche l'elezione diretta del capo dello Stato o di quello dell'esecutivo. Il modo in cui ha luogo la delega è però estremamente importante per comprendere la reale natura del regime.

Ho già ampiamente discusso il senso del sistema maggioritario, su cui ho scoperto di concordare anche con Canfora. Si tratta di un procedimento elettorale atto a svuotare di contenuto democratico le elezioni, in quanto restringe la scelta in modo tale che il cittadino non è, in realtà, rappresentato in modo adeguato. Egli non ha più, infatti, la possibilità concreta di scegliere da chi farsi rappresentare, perché soltanto due al massimo dei candidati che si presentano per il suo collegio hanno possibilità concrete di essere eletti. La scelta dei due candidati è fatta dall'alto, dal sistema dei partiti e da altri poteri; il cittadino quindi ha soltanto una limitata influenza nello stabilire la composizione del parlamento, scegliendo tra opzioni molto simili nell'ambito dell'oligarchia dominante.

Perché in realtà tutte le forme di Stato sono fondamentalmente oligarchiche, anche la democrazia ateniese lo era. Nell'antica Atene i cittadini erano ripartiti per censo, ed i pieni diritti di eleggibilità spettavano solo ai più ricchi; la maggioranza della popolazione non aveva neppure la cittadinanza, trattandosi di schiavi o di stranieri residenti. Ed il popolo ateniese seguiva le indicazioni dei demagoghi nelle turbolente riunioni dell'ecclesìa. Non c'è da meravigliarsi che i principali filosofi fossero di tendenza aristocratica, come Platone.

I mali della democrazia ateniese, descritti da Platone, erano tanto gravi e profondi che il regime durò pochi decenni. E si trattava di un regime molto simile a quello in cui viviamo oggi: il potere era di fatto nelle mani di industriali, armatori e grandi commercianti, che si servivano dei demagoghi per indirizzare il popolo a loro piacimento. La violenta critica di Platone alla democrazia, critica che Popper altrettanto violentemente contesta nel libro I della Società Aperta, era basata sulla sua esperienza diretta, per tanti aspetti simile a quella che stiamo vivendo oggi. La sequenza della degenerazione delle forme di governo, descritta da Platone nel libro VIII della Repubblica, rimane attualissima. La previsione per il regime democratico è la sua degenerazione in tirannide, quando un uomo forte o semplicemente un demagogo più abile cancella la componente di effettivo governo della maggioranza assumendo in sé tutto il potere.

Le differenze tra le forme di governo sono reali, ma riguardano l'aspetto istituzionale. Le considerazioni fatte in precedenza adombrano il concetto fondamentale che accanto all'esercizio formale del potere esiste una struttura sostanziale, che può essere alquanto diversa ed a volte del tutto separata da quella dello Stato. Una perfetta democrazia formale può coincidere con una ferrea dittatura totalitaria, se attraverso i mezzi di comunicazione il leader può influenzare i cittadini a tal punto da indurli sempre a votare secondo i suoi desideri. I mezzi tecnici oggi disponibili si avvicinano a rendere realizzabile questo incubo. Del resto è un luogo comune della politica che, ad esempio, i plebisciti siano tipici dei regimi dittatoriali. La maggioranza è per sua natura manipolabile, tanto che un voto a suffragio universale può servire perfettamente a confermare la decisioni di un dittatore. Lo strumento del voto non è affatto una garanzia di democrazia, in assenza di tutti gli altri elementi. Una monarchia assoluta che però soddisfi il criterio del governo della legge e dell'inviolabilità della persona può essere più democratica di un regime di democrazia diretta in cui tutto sia deciso tramite referendum. Infatti può accadere che un sovrano assoluto, per via di vincoli legislativi e tradizionali, assicuri l'uguaglianza e la dignità dei suoi sudditi molto meglio di un regime assembleare. Non si tratta di considerazioni teoriche: Socrate fu condannato a morte nell'Atene democratica, ed Anassagora dovette fuggire da Atene per non fare la stessa fine, mentre centocinquant'anni dopo l'India conobbe, sotto il regno assoluto di Ashoka Maurya, un regime che riconosceva esplicitamente la maggior parte dei princìpi di democrazia che abbiamo esposto. Nell'Atene democratica i filosofi correvano pericolo di vita, mentre nell'impero dei Maurya tutte le correnti di pensiero godevano di assoluta libertà, in primo luogo il buddhismo ed il giainismo che, si badi bene, non riconoscevano il sistema delle caste, in netto contrasto con l'organizzazione sociale derivante dai Veda. Ai Maurya succedette, nel dominio dell'India del nord, la dinastia greco-battriana, che realizzò una straordinaria fusione tra civiltà greca ed indiana, purtroppo completamente trascurata nei libri di storia, per la mancanza di fonti storiche primarie. La conoscenza che abbiamo di quell'epoca è dovuta prevalentemente alla ricerca archeologica - ma non divaghiamo oltre.

Ciascuna forma di governo contiene sempre, formalmente o per effetto di una struttura non istituzionale, componenti di tutte le altre. E' importante sottolineare però che la componente oligarchica è sempre determinante. Nella forma monarchica classica esiste sempre una classe aristocratica che si considera pari al re e costantemente si adopera per conservare una parte importante del potere. Nella monarchia dispotica, nella tirannide, attorno al tiranno esiste sempre un gruppo di accoliti, attraverso i quali egli esercita il proprio potere. A differenza del monarca, il tiranno fa ricorso a persone di modesta estrazione, perché la loro fedeltà sia assicurata. Ma questo comporta semplicemente un più facile degrado del regime; il tiranno riceverà adulazione ed ossequio dagli accoliti, perdendo così il contatto con la realtà. Il potere effettivo sarà dunque sempre nelle mani di personaggi mediocri, il che rende le tirannidi fortemente instabili. Nella democrazia esiste sempre una classe dominante, prevalentemente di tipo plutocratico: il potere del denaro prevale su tutto. Pensiamo alla democrazia americana, dove per essere eletti occorre essere in grado di spendere somme di denaro favolose, assolutamente fuori della portata di chi non è esageratamente ricco o non ha l'appoggio di potentati economici. Soltanto l'associazione in partiti organizzati può consentire ai cittadini comuni di opporsi allo strapotere dell'economia; dove i partiti di massa non esistono, come negli USA, viene a mancare un elemento chiave a controbilanciare il potere del denaro. Ma gli stessi partiti di massa tendono a diventare, a propria volta, oligarchici, tramite il prevalere della gerarchia interna rispetto alla base. Questo tipo di involuzione è evidente nella sinistra italiana, dove i personaggi di apparato hanno finito per prevalere, tanto che la base si sta ormai allontanando dai partiti e dalla politica in generale.

Lo stato liberale classico si basa sulla democrazia rappresentativa, che unisce l'elemento aristocratico per cui il potere di fatto è gestito da un gruppo limitato e non dalla totalità del popolo, con il principio democratico dell'elezione dei rappresentanti. Le varie costituzioni di stampo liberale, da quella americana, fortemente indirizzata a favorire i più abbienti, a quella inglese, che conserva la monarchia come puro elemento simbolico, a quella italiana, orientata al parlamentarismo e caratterizzata fino a tempi recenti dal predominio della struttura dei partiti, contemperano elementi monarchici, aristocratici e democratici in vario modo. Tutti i regimi reali sono di tipo misto, con caratteristiche determinate dalle circostanze storiche e dalla struttura sociale, religiosa e culturale del paese. Nessun regime può essere esportato sistematicamente in ogni e qualsivoglia parte del mondo, perché tutti sono legati al contesto in cui sono nati. Abbiamo tutti assistito alla tragica degenerazione del sistema liberale, quando viene applicato in contesti sociali e culturali troppo lontani da quelli in cui è nato, in Africa come in Europa dell'Est.

Il pensiero unico oggi dominante si basa invece sul presupposto che la miglior forma di governo sia la democrazia, intesa appunto come un regime di tipo liberale, preferibilmente presidenziale, il cui prototipo sono gli Stati Uniti d'America. A questo regime, secondo l'ideologia corrente, si accompagna invariabilmente il liberismo economico, che comporta anche la riduzione al minimo dell'intervento dello Stato nell'economia. La parola democrazia è stata quindi usurpata e resa sinonima di una forma di governo ben precisa, in realtà sempre meno democratica. Viene deliberatamente trascurato il fatto che negli USA la maggior parte di coloro che ne hanno diritto non votano, e che la politica è totalmente controllata da coloro che detengono il potere economico. L'attuale presidente, George W. Bush, è un'emerita nullità piazzata su quell'importante poltrona dalle lobbies dell'energia e degli armamenti. Ben pochi pensano che Bush eserciti veramente la presidenza, piuttosto che fare il prestanome delle lobbies, rappresentate nel governo in primo luogo dal vicepresidente Cheney. La componente istituzionale della democrazia è ormai svuotata di significato.

Dobbiamo dunque ridefinire la democrazia: il grado di democrazia di uno Stato dipenderà dalla misura in cui esso soddisfa le condizioni esposte nel capitolo precedente. L'elezione di un parlamento con metodo maggioritario non è né l'unico né il miglior modo per realizzare la partecipazione dei cittadini al potere dello Stato, l'elezione diretta del presidente ancor meno. Se vogliamo parlare di democrazia sostanziale, occorre che i criteri di democrazia siano soddisfatti nella realtà, e non in una finzione formalistica.

Il pensiero dominante, oggi, sulla scorta del modo di pensare avvocatizio della classe dirigente americana, trascura totalmente l'aspetto sostanziale a favore di quello formale. I cittadini americani, ad esempio, sarebbero perfettamente garantiti contro gli abusi dell'autorità, perché sono immediatamente informati dei loro diritti quando vengono arrestati. Peccato che l'effettiva garanzia del cittadino sia legata al suo censo, visto che soltanto chi può pagarsi un buon avvocato ha la possibilità reale di difendersi dall'abuso. L'unico principio di democrazia che ancora sopravvive in una buona misura è la libertà di opinione, salvo che la maggioranza della popolazione ascolta soltanto l'opinione dei potenti. Gli altri non sono messi a tacere con la forza, ma con la difficoltà di accedere ai media, si legga quel che scrive Gore Vidal in La fine della libertà (ed. it. Fazi Editore, Roma 2001). Molti americani continuano a credere che chiunque possa diventare presidente, se ha la stoffa giusta, e forse ne traggono conferma constatando che un sempliciotto qualsiasi può essere eletto alla presidenza USA, se ha qualche merito. Sì, certo, il merito di essere figlio di un presidente ed esponente dell'industria del petrolio, nonché socio in affari della famiglia bin Laden (si veda ad es. G. Chiesa, La guerra infinita, Feltrinelli Milano 2002, p. 72). Beninteso, non è un delitto essere queste tre cose, ma non si direbbe questa la stoffa giusta.
 

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Il modello platonico

Non ritengo che si possa negare che l'esercizio effettivo del potere è sempre nella mani di una minoranza. La differenza tra le forme di governo riguarda in effetti la composizione ed il modo di designazione delle cariche istituzionali; in parallelo, come abbiamo visto, si avrà sempre una struttura del potere reale, che potrà coincidere in misura maggiore o minore, non mai totale, con quella delle istituzioni.

La forma migliore di governo dovrebbe unire in modo coerente istituzioni e potere reale, garantendo che i principi di buon governo siano realizzati nella misura massima possibile in un dato contesto sociale, economico e culturale. Il contrasto tra potere reale e formale è legato all'altra dualità della politica, quella tra uomini ed istituzioni. Una monarchia assoluta può dare luogo ad un'ottima gestione dello Stato sotto un regnante saggio o ad una pessima sotto un folle incompetente. Il vero difetto della monarchia è appunto questo: che il re può essere un cattivo soggetto. Un buon re può addirittura garantire la migliore partecipazione dei cittadini al potere, attraverso il semplice meccanismo delle udienze e delle petizioni, che pure fa parte delle istituzioni monarchiche più antiche. Nei regni e negli imperi antichi era infatti diritto inalienabile di chiunque appellarsi direttamente al sovrano; l'esercizio effettivo di questo diritto poteva essere aleatorio, ma non dev'essere sottovalutato. Nell'equilibrio dei poteri di una monarchia tradizionale il re, infatti, faceva conto in modo fondamentale sulla sua popolarità presso i ceti più bassi, per tenere a freno l'aristocrazia. Se confrontiamo una monarchia di questo tipo con i principi di democrazia che abbiamo enunciato, vediamo che li soddisfa in buona misura. Finché il sovrano assicura il principio del governo della legge, sottoponendosi ad essa e riconoscendo quindi i diritti dei sudditi, questi ultimi sono protetti contro gli abusi meglio che in un regime di tipo rappresentativo. Il difetto della monarchia non è nell'istituzione, ma nel rischio legato alla personalità del re.

L'istituzione non esiste senza l'uomo, e la qualità di un governo dipende dalla qualità degli uomini che lo compongono, molto più che dai formalismi istituzionali. Si può pensare quindi di affrontare il tema della ricerca del miglior governo, individuando un metodo che porti i migliori a governare. E' questa la tesi di Platone.

Da un punto di vista razionale, è una tesi lecita che lo Stato ideale sia quello in cui le persone più competenti hanno tutto il potere. Come afferma Platone, se si è malati è meglio andare dal medico piuttosto che consultare a caso quelli che passano per la strada, ugualmente per governare la cosa pubblica sarà meglio affidarla a coloro che sanno governare. Il principio democratico in senso stretto è sbagliato, perché non è assolutamente vero che l'opinione della maggioranza è la migliore, anzi molto spesso la maggioranza giudica in modo errato. Soltanto gli esperti di ciascuna materia hanno le conoscenze giuste, e per definizione sono sempre una minoranza. Bisogna dunque trovare gli esperti dell'arte di governare ed affidare loro lo Stato. Ma chi sono gli esperti del governo? Platone approfondisce la questione e giunge a dire che sono i filosofi.

Platone propone quindi un'aristocrazia dei filosofi, ed affronta immediatamente il problema cruciale: come impedire che i filosofi governanti approfittino della situazione per farsi i fatti propri. Tra i suoi rimedi c'è l'abolizione della famiglia e della proprietà privata, per eliminare il concetto stesso di fatti propri. I filosofi dovranno fare vita collettiva e non potranno avere possedimenti né famiglia. Questa imposizione vale appunto soltanto per i governanti, non si estende a tutta la cittadinanza. I nuovi filosofi non sono però necessariamente i figli dei filosofi, perché un loro discendente può essere scartato per indegnità, ed un figlio di comuni cittadini può essere cooptato.

Lo Stato platonico ha avuto in realtà alcune realizzazioni concrete. Una è molto vicina a noi: la Chiesa cattolica. E' vero che ai prelati non è proibito avere proprietà, a meno che non appartengano ad ordini religiosi che contemplino il voto di povertà; tuttavia non hanno famiglia, vincolo introdotto definitivamente solo nel Cinquecento, appunto per il motivo sollevato da Platone, perché non abbiano eredi dei propri interessi mondani e per contrastare il nepotismo. La Chiesa è considerata l'unica detentrice dell'autentica dottrina, senza alcun meccanismo democratico esterno, ma con istituzioni collettive interne come sinodi e concili. La gerarchia si perpetua per cooptazione, non per elezione dal basso, esattamente come la classe dei filosofi di Platone.

Un altro esempio era il Tibet prima dell'invasione cinese. Il potere politico supremo era detenuto dai monaci buddisti della scuola Ghelupa (anche chiamati Berretti Gialli). Conformemente alla loro regola, i monaci non possiedono nulla e non hanno famiglia (altre scuole tibetane ammettono invece il matrimonio), e per acquisire autorità devono sottoporsi ad un lungo e complesso ciclo di studi filosofici. L'autorità suprema si trasmette attraverso il principio della rinascita: morto un leader, si va alla ricerca di un bambino che mostri i segni di essere la sua "reincarnazione" (termine errato in ambito buddista, ma può servire agli occidentali per farsi un'idea); una volta individuato, il bambino viene allevato in un monastero ed indirizzato al suo futuro incarico attraverso una lunga formazione e studi approfonditi. Se consideriamo che il buddismo è più una filosofia che una religione, e che la reincarnazione era ammessa anche da Platone, lo stato tibetano era quanto di più vicino al platonismo sia stato realizzato. La sua caduta è stata dovuta all'invasione cinese, che ha colpito l'unico punto debole del sistema, l'assenza di una forza militare per difendersi dalle aggressioni esterne. La principale differenza tra il regime tibetano e lo stato platonico era appunto nella natura pacifica e non violenta dei reggitori. Platone s'era preoccupato di questa eventualità, sottolineando la necessità che i reggitori dello Stato fossero non solo filosofi ma anche guerrieri. I monaci tibetani erano invece assolutamente pacifici, lo stato disponeva di una limitatissima forza militare sotto forma di una guardia di frontiera.

Il comunismo sovietico era un altro esempio, tuttavia molto meno perfezionato. E' vero, infatti, che si ispirava alla filosofia marxista leninista, profondamente egualitaria, ma era privo di accorgimenti contro la degenerazione del gruppo dominante. L'unico dispositivo di sicurezza era l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, ma la gerarchia del partito, al di là del generico impegno egualitario, era libera di organizzare la propria vita in piena contraddizione con gli ideali dichiarati. Per confronto, la Chiesa cattolica impone a tutti i prelati il celibato e bilancia il lusso della gerarchia secolare (quella alta, beninteso) con l'influenza degli ordini religiosi. In questo modo, pur fra grandi ipocrisie, preserva in una certa misura gli ideali di povertà e uguaglianza. Sicuramente uno dei motivi del crollo del comunismo è stata la mancata applicazione dei principi platonici su famiglia e proprietà personale. Non c'è, peraltro, alcun dubbio che il comunismo sovietico rappresentasse una forma di Stato in qualche modo affine al modello platonico.

Cerchiamo ora di riassumere le considerazioni a favore di questo tipo di regime. In primo luogo, dobbiamo osservare che in qualunque tipo di organizzazione sociale, c'è una minoranza che detiene il potere e la maggioranza è in qualche modo assoggettata. Questo è vero anche nelle cosiddette democrazie, perché il potere è comunque nelle mani dei politici e di altre categorie, più o meno coincidenti con essi, come industriali, finanzieri, alti gradi militari. Il popolo sovrano con le elezioni può soltanto scegliere tra l'uno o l'altro oligarca o gruppo di oligarchi, non ha altro potere in realtà. Quindi si può ritenere necessario che il potere sia affidato ad un gruppo di persone specialmente competenti, creando istituzioni che impediscano che nel tempo gli esperti diventino semplicemente un'oligarchia qualsiasi, dedita al puro esercizio del potere anziché al benessere comune.

Visto che tutti gli esperimenti pratici di realizzazione dello stato platonico sono finora falliti, dobbiamo allora chiederci dove sia l'errore: nei singoli tentativi o nel principio.

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La società aperta

Nella "Società aperta ed i suoi nemici" Karl Popper critica spietatamente Platone per aver esposto la tesi che ho riassunto nel paragrafo precedente, facendo del filosofo ateniese il campione dei regimi di tipo chiuso. In questa categoria Popper include tutte quelle forme di Stato che si basano su un'idea, o un'ideologia, o un presunto ordine naturale delle cose al quale si ispira ogni aspetto dell'organizzazione statale e della società, in contrasto con le società aperte, in cui avviene un libero confronto tra idee e forze politiche e sociali, senza che vi sia una linea dominante imposta dal regime. Le società chiuse comprendono sia le società tradizionali, come la Sparta dell'antichità, sia i regimi totalitari moderni. La definizione di totalitario implica appunto che ogni aspetto della vita umana sia regolato socialmente, mentre in una società aperta l'individuo gode di una libertà sostanziale.

Il ragionamento di Popper è diametralmente opposto a quello di Platone. Egli sostiene che non si potrà mai fare in modo che siano i migliori a governare, quindi occorre costruire un sistema che semplicemente limiti il potere dei governanti, evitando che possano approfittare troppo del loro ruolo, dando per assodato che il tipico uomo di governo sia mediocre ed incline a fare i propri interessi anziché quelli dei cittadini. Questo sistema non è un particolare tipo di istituzione, ma una struttura generale della società, che Popper chiama aperta. Una società che non ha un riferimento ideale, tantomeno ideologico, e che consiste in un'arena in cui le forze politiche, sociali ed economiche si affrontano e si scontrano liberamente, in un contesto di regole mirate ad assicurare semplicemente uguali opportunità ed estese libertà a tutti. La libertà individuale diviene il punto cruciale, perché appunto lasciando libera l'iniziativa dell'individuo si ottiene quella dinamica sociale e culturale che meglio consente lo sviluppo dell'umanità nel suo insieme. Le società chiuse mirano invece a preservare all'infinito un ordine considerato perfetto, che include ogni aspetto dell'esistenza umana.

La società aperta è pertanto quella che riconosce all'individuo piena dignità, recependo nei rapporti sociali ed istituzionali il principio etico kantiano, che l'umanità di ciascuno debba essere trattata come un fine. Come sottolineavo in etica e regole, non è mai lecito subordinare l'umanità del singolo ad un fine presunto di più alta dignità. Questo potrebbe portarci "a ritenere accettabile l'uso della violenza repressiva nei confronti di intere categorie di persone, se non dell'intera popolazione, in nome di un ipotetico ordine sociale futuro in cui tutti vivranno meglio", il che sarebbe in piena contraddizione con i principi etici e con le regole, da essi derivate, che abbiamo enunciato.

La democrazia che abbiamo definito più sopra in parte coincide con la società aperta di Popper. Ma non completamente: Popper non introduce il principio della solidarietà sociale; i modelli hanno invece in comune un punto importante, che consiste nel non definire forme istituzionali ma soltanto principi basilari su cui l'ordine sociale deve fondarsi. Non è essenziale quale sia il metodo con cui sono individuati i reggenti dello Stato, l'importante è che esso non contraddica i punti fondamentali che definiscono il tipo di società che vogliamo individuare.

Popper formulò il concetto di società aperta in un momento tragico della storia del XX secolo, quando i totalitarismi rossi e neri sembravano sul punto di sopraffare il mondo liberale dell'Occidente. Si capisce dunque la veemenza con cui attacca quelli che individua come nemici della sua società ideale, adoperando a volte un linguaggio molto duro. Finita la II Guerra Mondiale la contrapposizione non ebbe fine, riproducendosi nella guerra fredda. Oggi anche questa è finita, ma non possiamo dire che la società aperta trionfi. Sembra, anzi, che sia entrata in una fase degenerativa, che ho interpretato altrove come un ritorno al Medioevo.

Se ritorniamo al primo esempio di società aperta addotto da Popper, l'Atene del V e IV secolo a.C., vediamo che anch'essa conobbe assai presto una degenerazione che causò ben presto la fine dell'esperimento. Anche la repubblica romana, che conteneva elementi significativi di apertura, finì per trasformarsi in Impero. Sembra che, applicando il principio scientifico caro a Popper della falsificazione, la società aperta sia sempre stata rapidamente distrutta dagli eventi, rivelandosi alquanto instabile. La teoria platonica della successione dei regimi politici (Repubblica, libro VIII), invece, è verificata da quanto è accaduto nelle diverse epoche storiche ai regimi democratici: sono caduti nelle mani di demagoghi e plutocrati, per poi trasformarsi in tirannidi.

Dov'è l'errore?

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Che cosa sta accadendo alla società occidentale

Prima di affrontare la critica alle posizioni di Popper, devo sottolineare che sono state trasformate in ideologia ed oggi fanno parte del pensiero unico dominante. Il fatto più grave è che si fa uso degli argomenti di Popper per difendere una struttura sociale che si sta avviando ad una sostanziale chiusura.

Lo stesso Popper sostiene la superiorità della società aperta basandosi sul grado di benessere prodotto dalla società liberale nel mondo moderno. A volte non distingue a sufficienza tra il modello ideale, la società aperta, e la sua realizzazione concreta, la società liberale. E' nel giusto quando afferma che i principi di eguaglianza, libertà, uguale dignità discendono direttamente da considerazioni etiche: si tratta esattamente della tesi che ho sostenuto più sopra, che deriva direttamente da Kant. Tuttavia Popper stesso indica la via agli ideologi, sostenendo che la società liberale è appunto quella e che il benessere da essa prodotto dimostra concretamente la sua superiorità. Si tratta invece di argomenti incoerenti, perché il benessere ed il grado di sviluppo umano non sono univocamente definiti e non hanno un legame determinato con la qualità etica del regime.

Chi fosse vissuto sotto l'imperatore Ashoka Maurya avrebbe potuto teorizzare la superiorità della monarchia assoluta allo scopo di garantire lo sviluppo umano, trovando fior di argomenti. Il fatto è che gli straordinari progressi politici e sociali del mondo occidentale sono legati al contesto storico in cui sono avvenuti. Oggi, agli inizi del XXI secolo, stiamo assistendo alla decadenza del modello occidentale e siamo in grado di aprire gli occhi sui suoi difetti. Questo non è storicismo, per usare il termine popperiano, perché non si tratta di trarre previsioni considerate infallibili sulla base di una presunta necessità storica, ma al contrario di applicare agli eventi storici un'analisi in qualche modo scientifica. Stiamo confrontando teorie e fatti, non affermando un determinismo arbitrario.

Il fatto è che non esistono società veramente aperte. In ogni società esiste una classe ed un'ideologia dominante; le realizzazioni storiche di un certo modello di società possono dare luogo a risultati di diverso valore, e non c'è dubbio che Europa ed America del Nord abbiano conosciuto un periodo di eccezionale fioritura. Ma a quali condizioni?

Il sistema sociale in cui viviamo è una plutocrazia, che Platone chiamerebbe oligarchia, in cui sono stati progressivamente inseriti, a partire dal XIX secolo e fino a due terzi del XX, elementi di democrazia istituzionale e sociale. Le libere elezioni sono state scelte dal gruppo dominante come metodo ottimale di gestione del consenso, rispetto ad alternative come la pura coercizione o il fanatismo religioso. Le riforme sociali e politiche sono state rese possibili dall'esistenza di una forza contrapposta al predominio dei più ricchi, una forza che ha reso necessarie concessioni sostanziali come il suffragio universale e lo stato sociale. Questa forza è costituita dalle sinistre socialiste e comuniste; nel XX secolo, l'esistenza della Russia comunista ha costretto l'occidente capitalista a concedere riforme sociali molto importanti, per gestire il consenso ed evitare di essere travolto dai contrasti sociali. Secondo l'argomento tipico del pensiero unico attuale, il capitalismo arricchisce i ricchi ma di riflesso porta in alto il benessere di tutte le classi sociali, attraverso la maggiore efficienza dell'economia. Gli eventi degli ultimi anni mostrano che non è vero. Una volta cessata la minaccia rappresentata da un ordine politico e sociale alternativo, i detentori del potere economico hanno cominciato a demolire i meccanismi di riequilibrio sociale faticosamente costruiti nell'arco di oltre un secolo. L'aumento di ricchezza complessivo, ammesso che ancora esista, si accompagna ora ad una ripartizione sempre più disuguale. Il notevole benessere di cui abbiamo goduto e ancora in una certa misura godiamo in occidente, non è però stato conquistato gratuitamente.

Se analizziamo, infatti, quanto è accaduto nel secolo scorso (il XX, per quelli che ancora non si sono accorti di essere nel XXI), ci accorgiamo che si è verificata, per un certo tempo, la cooptazione dell'intera popolazione dell'occidente sviluppato nella classe media. Questo è stato reso possibile dal trasferimento dello sfruttamento economico nei paesi poveri del cosiddetto Terzo Mondo. Tuttora l'Occidente consuma una quota sproporzionata delle risorse del mondo; la disuguaglianza del reddito a livello mondiale nel XX secolo non si è ridotta, anzi è cresciuta. Nel 1960 il 20% più ricco della popolazione mondiale aveva un reddito pari a 30 volte quello del 20% più povero; nel 1999, il rapporto era passato a 84 volte. La maggioranza della popolazione mondiale vive in società del tutto chiuse: milioni di morti di fame e pochi ricconi amici dell'Occidente.

Noi occidentali siamo collettivamente la classe dominante del pianeta e ci balocchiamo con concetti di libertà, apertura della società e così via; intanto cominciamo a provare disagio quando migliaia di individui laceri e sconvolti sbarcano sulle nostre coste da carrette arrugginite pilotate da delinquenti, e facciamo leggi per tenerli fuori. Nell'antica Atene i cittadini liberi erano probabilmente un quarto della popolazione, gli altri erano stranieri senza diritti politici o schiavi; oggi non dobbiamo fare il confronto su una delle nostre nazioni, ma sul totale del mondo. Ci accorgiamo allora che la situazione è molto peggiore, coloro che godono, almeno formalmente, di pieni diritti sono meno di un quinto del totale. E come nell'antica Atene, la maggior parte di essi sono comunque poveri rispetto alla loro stessa collettività privilegiata. E' dunque vero che Atene non era veramente aperta e democratica, ma il mondo liberale lo è ancor meno.

Il potere mondiale è nelle mani di poche migliaia di persone, che in buona parte non sono capi di governi ma di banche e società finanziarie. Non c'è nessuno scontro di poteri, ora che l'Unione Sovietica è crollata. Alle elezioni, possiamo scegliere tra candidati il cui allineamento con il potere economico è compreso tra il 98-99% (sinistra) ed il 100% (destra). Certo, io posso scrivere queste cose e metterle sul web, e mi baso su dati forniti da altri che addirittura pubblicano libri. Questo è dovuto al fatto che la classe dominante da un lato non ci considera pericolosi, dall'altro è portata dalla propria ideologia a non reprimere il dissenso se non è direttamente minaccioso, per purissimi motivi di efficienza.

I padroni del mondo hanno semplicemente scoperto che è meglio lasciare qualche voce dissenziente piuttosto che reprimere poliziescamente tutti, finché il loro potere non è in pericolo. I media, da cui la maggioranza della popolazione trae le sue informazioni, sono efficacemente autocensurati. Tutti i media, infatti, appartengono a grandi società, ed i giornalisti per far carriera devono imparare a controllare le proprie affermazioni. Certo ci sono eccezioni, come ce n'erano nella stessa Unione Sovietica.

Mentre scrivevo si è svolto il convegno ONU sull'ambiente a Johannesburg. Vediamo benissimo dove ci sta portando una società che si presume aperta: essendo tutti, singolarmente e collettivamente come individui o come rappresentanti di aziende e di organizzazioni dedite al potere ed al profitto, in lotta fra noi per gli scopi razionali della teoria economica, ce ne infischiamo tutti se stiamo mandando in rovina il pianeta. Non è possibile accordarsi per salvare l'ambiente, l'esito del convegno è stato una serie di dichiarazioni di principio non vincolanti per nessuno. Abbiamo disperatamente bisogno di sentirci di nuovo uniti, parte di qualcosa di più grande di noi, di porci obiettivi collettivi importanti di natura non economica. La società occidentale ha cancellato tutti i valori, lasciando solo il denaro e gli istinti primordiali, tutti cercano di arricchirsi per poi godersela. La classe dominante non si preoccupa del futuro del mondo in parte perché non capisce, in parte perché ciascun suo membro ritiene di potersi salvare da qualsiasi evento che possa colpire la gente comune, e purtroppo quest'immunità è in buona misura reale.

Cerchiamo di capire qualcosa di più, criticando i filosofi che abbiamo individuato come campioni dei due tipi di società, quella aperta e quella organica.

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Critica dello stato organico

Platone scrive a volte cose scandalose per il benpensante democratico di oggi. I reggitori dello stato, ad esempio, secondo lui possono lecitamente mentire alla maggioranza, ed essi soltanto. Proibisce certi tipi di poesia e di musica. Adotta il metodo coercitivo per garantire la stabilità del potere dei suoi governanti perfetti. Invece di affidarsi al libero scontro degli individui, predilige l'attribuzione del potere ai filosofi.

Lo stato platonico descritto nella Repubblica rischierebbe di essere un'orribile prigione, Popper ha senz'altro ragione ad affermarlo. Lo stato perfetto non può che essere immutabile, per definizione, e Platone per rendere perfetto e quindi immutabile lo Stato si trova costretto ad incatenare gli uomini.

Popper accusa Platone di voler semplicemente restaurare la società di tipo tribale, al cui crollo l'ateniese aveva assistito, partecipando alla sensazione di angoscia e sradicamento che deriva dall'avere abbandonato una visione del mondo in cui ogni cosa ed ogni persona aveva un posto preciso, per una in cui ciascuno è da un lato libero ed indipendente dai condizionamenti, ma dall'altro è solo e privo del sostegno delle certezze tradizionali. Secondo Popper, una volta che la società tradizionale sia entrata in crisi e sia stata in qualche modo sostituita da una forma più aperta, tale ritorno diviene impossibile e può soltanto portare al totalitarismo, la forma sociale e politica in cui le istituzioni cercano di stabilire nei minimi dettagli il modo di vivere di ciascuno, e le regole sono applicate in modo puramente coercitivo. I conservatori come Platone cercherebbero di sfuggire all'ansia causata dal crollo del sistema tribale tentando questo impossibile ritorno ad un'epoca ormai irripetibile.

Non condivido questa critica. In primo luogo, Popper stesso afferma più volte di essere contrario all'atteggiamento psicologistico, che pretende di trovare motivazioni psicologiche alle tesi dei filosofi. Affermare che Platone subisse l'ansia per la caduta del regime aristocratico tradizionale è puro psicologismo. Platone era allievo di Socrate, ed aveva sperato in gioventù che la democrazia ateniese potesse davvero produrre un modo di vivere più aperto, basato sulla ragione anziché sulla superstizione e sull'istinto. Come tanti altri intellettuali di allora, fu tragicamente colpito dal fallimento del regime democratico, che si era sostanzialmente autodistrutto. Popper accusa gli aristocratici di aver causato il crollo della democrazia operando come una quinta colonna degli spartani, ma così facendo si allinea di nuovo con una categoria che altrove critica pesantemente, quella dei teorici del complotto. Se la democrazia avesse funzionato, sarebbe dovuta essere in grado di difendersi, perché i cittadini avrebbero estromesso dal potere gli aristocratici traditori eleggendo alle cariche più importanti autentici leader democratici.

In realtà, come Platone aveva potuto osservare, il comportamento del popolo sovrano non è affatto razionale, ed espone la democrazia ad essere rapidamente conquistata da capi che non la rispettano ma semplicemente ne approfittano per conquistare il potere. Gli uomini che tengono la schiena dritta e pensano con la propria testa rischiano sia con i democratici sia con gli aristocratici: Socrate scampò per poco ad una condanna da parte dei Trenta Tiranni, per poi essere messo a morte sotto la democrazia.

Platone non è un restauratore di un passato che non può tornare, ma un razionalista puro. Si basa sul principio che sia possibile con la ragione costruire l'istituzione perfetta, e ne deduce rigorosamente che tale forma istituzionale deve anche essere immutabile. Ed ha ragione: se veramente fosse possibile creare un modello istituzionale basato sulla pura ragione, sarebbe davvero perfetto ed immutabile, come una teoria matematica. La geometria euclidea non è più mutata dai tempi di Euclide, ciò che era vero allora è vero oggi; sono state scoperte le geometrie non euclidee, è vero, ma questo non altera minimamente la validità in sé della teoria di Euclide. Date le premesse (i postulati) di Euclide, tutte le deduzioni sono valide oggi come allora. Platone voleva costruire qualcosa di analogo in politica.

Una caratteristica fondamentale del filosofo razionalista è la disponibilità ad accettare le conseguenze del suo ragionamento, anche quando contraddicono il senso comune o l'apparenza empirica. Platone era tanto razionale e tanto poco tradizionalista e tribale da proporre addirittura l'abolizione del matrimonio. Le sue tesi sul rapporto di coppia sono scandalose per quasi tutte le società tradizionali del mondo, ed includono anche la libertà del sesso non riproduttivo (Repubblica V, 461B-C). L'accusa di Popper a Platone è falsa e malevola, perché si basa su un modo di argomentare capzioso e non razionale: fa il processo alle intenzioni di Platone, supponendo che per lui i Custodi coincidano con l'aristocrazia di sangue tradizionale, mentre Platone spiega chiaramente che sta parlando di uno stato ipotetico ed ideale, e che l'aristocrazia di cui parla si fonda sulle qualità individuali. Anche chi ritiene che Platone reconditamente pensasse agli aristocratici suoi amici e parenti, non per questo deve sfuggire al dovere di discutere i suoi argomenti, non i suoi eventuali secondi fini. Cerchiamo di fare questo, allora, evitando appunto capziosità ed artifici dialettici.

Io credo che, essendo inattingibile razionalmente la verità assoluta, non si possa sostenere la validità assoluta del sistema platonico. Ma si tratta di un modello ben costruito, ciascun elemento del quale deve essere attentamente considerato. Un modello razionale, infatti, può sopravvivere anche alla perdita di una premessa importante, come la geometria euclidea che resta valida anche dopo la scoperta di quelle non euclidee. Platone, ad esempio, non approfondisce troppo i criteri con cui si possono cooptare i Custodi, forse per non urtare gli aristocratici, piuttosto che per sua convinzione che l'aristocrazia tradizionale debba alla fine coincidere con tale classe.

Proviamo ad immaginare che i Custodi siano un gruppo di persone che rinunciano alla proprietà ed alla famiglia, e che per entrare fra di essi si debba essere scelti da bambini ed allevati appositamente, una volta che siano state riscontrate certe qualità di base. Tale ordine di governanti sarebbe caratterizzato fondamentalmente dal merito intellettuale, attraverso un lungo e severo ciclo di formazione, da seguire fin dall'infanzia, indispensabile per diventarne membri a pieno titolo. Una tale istituzione potrebbe organizzare un potere giusto e benevolo, tutt'altro che coercitivo. Non sto parlando di Utopia, come ho già accennato si è andati molto vicino a questo modello in Tibet prima del 1949.

La condanna del denaro, che Popper critica, non mi sembra affatto negativa. Platone sapeva benissimo, come lo sappiamo noi, che il potere del denaro è il veleno che uccide la democrazia. Il mondo in cui viviamo si sta distruggendo a causa della cieca prepotenza del potere finanziario. Il liberismo economico, lungi dal caratterizzare la democrazia, è invece per essa un elemento distruttivo. I vincoli all'iniziativa economica non violano alcun principio di democrazia, anzi sono necessari per realizzare quella giustizia sociale, che abbiamo introdotto tra i principi che definiscono la democrazia.

La condanna dell'arte, che tutti imputano a Platone come una grave colpa, è stata secondo me in parte fraintesa. Platone, in realtà, condanna l'uso distorto dei media. Il teatro, la poesia epica, la musica popolare erano i media di quell'epoca. Fortunati loro, potremmo dire, che avevano Aristofane ed Euripide invece di Bruno Vespa ed Antonio Ricci. Ma Platone vedeva che attraverso quei mezzi si poteva distorcere l'opinione pubblica inducendo la maggioranza a comportarsi secondo il volere dei demagoghi, in due modi diversi. Da un lato, si potevano direttamente propugnare le tesi che interessavano al momento, ad esempio attraverso la diffusione di calunnie e la satira malevola, pensiamo alla commedia di Aristofane "Le nuvole" in cui Socrate è presentato come un imbroglione vanesio. Dall'altro, si diffondevano modelli di vita nocivi e valori errati, dal punto di vista del nostro filosofo, come ad esempio concezioni dell'al di là che generavano paura della morte, che troviamo perfino nell'Iliade. Chissà che cosa penserebbe della televisione! Il potenziale diseducativo dei media è immenso, tanto che dobbiamo seriamente chiederci come si possa conciliare la libertà di espressione con eventuali misure per limitare gli effetti nocivi di fenomeni come la TV spazzatura. Non è vero che la libertà mette tutto a disposizione del pubblico, informazione ed intrattenimento buoni e cattivi, e che il buono finisce per prevalere. Purtroppo in genere accade il contrario. Platone cerca dunque di porre rimedio con misure pragmatiche a questa situazione, sconfinando nell'estremo opposto, la censura totale. La sua posizione non è condivisibile, ma deve essere meditata.

Veniamo però al punto fondamentale. L'universalità della ragione, che pure Platone dimostra con tanta efficacia  nel Menone, dove Socrate riesce a far svolgere da uno schiavo ignorante una dimostrazione di geometria, e quella dell'amore, che addirittura è legata al punto cruciale della sua dottrina metafisica, la coincidenza dell'Uno e del Bene, sono sopraffatte da considerazioni pratiche nella definizione delle sue utopie politiche, quella della Repubblica e quella delle Leggi (di cui non abbiamo parlato). Invece di introdurre il principio che tutti i cittadini devono avere la possibilità di crescere moralmente, riserva ai soli governanti l'accesso alla verità filosofica, preferendo mantenere i metodi applicati comunemente dai governanti non filosofi per assicurare la stabilità dello Stato: menzogne politiche, propaganda, censura. Non per nulla svolse i suoi tentativi di messa in pratica di questi progetti nella Siracusa del tiranno Dionigi, con esito disastroso. La via giusta era quella di Socrate, che dialogava con i giovani per aprire le loro menti, senza cercare di imporre una dottrina preconfezionata.

Il punto cruciale è che nella concezione platonica della giustizia si sottolinea assai più la diversità degli uomini che la loro eguaglianza. Possiamo tranquillamente affermare che l'etica platonica viene così a differire da quella kantiana, in quanto asserisce non l'equivalenza di tutti gli individui, ma la necessità della loro collocazione in un ordine ben definito, sulla base delle loro qualità. In Oriente troviamo una differenza analoga tra buddisti ed induisti: secondo questi ultimi, la collocazione degli individui in caste è giusta e dipende dalla loro storia individuale, che fa sì che in ogni vita data ogni individuo debba occupare il posto che gli spetta sulla base delle vite precedenti. Per i buddisti, invece, tutti sono uguali ed hanno uguale dignità. Per comprendere meglio Platone e gli induisti, dobbiamo osservare che per essi la realtà appartiene ad una sfera diversa da quella empirica. In tale sfera, la contraddizione sparisce, perché l'individualità rivela la sua natura illusoria. Inoltre la giustizia così intesa non esclude affatto la preoccupazione per il benessere di tutti, semplicemente accetta come inevitabile la disparità di ruoli e richiede che ciascuno impari a vivere il proprio accettandolo serenamente. Il buddismo, così come l'empirismo occidentale, nega invece qualsiasi realtà assoluta metafisica contrapposta al mondo, proponendosi come metodo anziché come rivelazione di una verità assoluta. Come si può facilmente capire, le classi dominanti di qualunque genere prediligono le filosofie puramente razionaliste. Ma nel momento in cui le sfruttano per conservare il potere, di fatto le tradiscono, perché queste stesse filosofie impongono ai capi pesanti doveri.

Il modello platonico della giustizia comporta, infatti, che i reggitori dello stato siano soggetti a regole ferree e si adoperino per il bene collettivo. Per di più i vincoli ad essi imposti includono l'obbligatorietà di certi comportamenti pubblici, anzi fanno sì che i Custodi abbiano ben poca vita privata.

In fondo è possibile ripensare il modello escludendo la componente antiegualitaria. Anzi, si può quasi arrivare a dire che questa componente è un elemento di disturbo e di incoerenza nel modello complessivo.

Nessun sostenitore dell'uguaglianza intende mai affermare che gli esseri umani hanno tutti uguali capacità, l'uguaglianza sussiste nei principi; spesso accade, però, che questo aspetto non sia considerato a sufficienza. Trascurare la differenza individuale, costruendo un modello basato sull'uguaglianza perfetta, è un errore molto grave, nel quale sono caduti in molti, compreso Marx ed in una certa misura Popper. Dobbiamo avere sempre presente che qualsiasi modello di società che non tenga conto del fatto che le differenze individuali esistono è destinato al fallimento più grave, perché consegnerà il potere in mano agli elementi peggiori della società, più avanti vedremo meglio per quale motivo. La ricerca di un modello sociale in cui le capacità individuali siano messe efficacemente a disposizione della collettività, senza produrre privilegi e senza coercizioni, mi sembra più che lecita, anche se oggettivamente difficile. Come abbiamo già accennato, l'eliminazione dell'elemento competitivo nella costituzione della classe di governo potrebbe essere la soluzione, ed un modo per ottenerla consiste nel selezionare i governanti in età molto giovane, sottoponendoli poi ad un tirocinio ferreo. Sarebbe naturalmente una soluzione del tutto opposta a quella di Popper, che consiste nella libera competizione.

L'opera di Platone ci fornisce ampi spunti per l'analisi delle società umane come si sono concretamente formate e per la formulazione di nuovi progetti di società: oltrepassando perfino i limiti del proprio pensiero, Platone ha analizzato con acume straordinario la società umana reale, cercando metodi pratici per la costruzione dello stato ideale. Le sue incoerenze, che pure esistono, sono del tipo più fruttuoso: ci inducono a riflettere ed a cercare altre soluzioni. Egli stesso se ne rese conto al punto di formulare due diversi modelli di Stato, uno nella Repubblica ed uno nelle Leggi. La critica fin qui condotta si basa sulla Repubblica, l'evoluzione tra i due modelli è un importante argomento su cui mi piacerebbe tornare.

Dobbiamo comunque ringraziare Platone, per la sua lucida analisi del mondo politico dei suoi tempi, che in parte significativa resta valida ancor oggi, e per aver coraggiosamente tentato di proporre modelli razionali di convivenza umana. Proprio a lui dobbiamo la formalizzazione del concetto del governo della legge, fondamentale nel nostro modello politico. Dobbiamo fare buon uso di quello che ci ha insegnato, pur essendo coscienti dei suoi errori. Non potremo mai disfarci di lui con giudizi trancianti e spietati come quello di Popper.

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Critica della società aperta popperiana

Rispetto a Platone, Popper va all'estremo opposto e sostiene che la miglior forma di organizzazione sociale è quella che lascia la massima apertura e favorisce la dinamicità. Nell'ammirevole tentativo di fornire una giustificazione filosofica dei principi di libertà ed uguaglianza, fondandoli sulla ragione, finisce però col forgiare uno strumento propagandistico per coloro che non hanno nessun interesse a conservarli, ma vogliono farne un vuoto simulacro.
 

L'uomo non è soltanto razionale, anzi...

La critica alla teoria di Popper richiede un'articolazione in più punti. In primo luogo, dobbiamo considerare la carenza di analisi psicologica e sociologica, che impedisce a Popper di accorgersi che una società in cui le regole sono ridotte al minimo non è governata dalla ragione ma dall'irrazionalità.

Popper non considera il punto cardine del ragionamento di Platone: la centralità dell'uomo rispetto all'istituzione. Come spiega nel capitolo X del libro I della Società Aperta, sta parlando di una società astratta, in cui i rapporti tra individui si riducono al minimo. La persona umana non è parte organica della società ma un elemento indipendente, il cui comportamento è basato esclusivamente sulla razionalità. "Una società chiusa ... è un'unità semiorganica i cui membri sono tenuti insieme da vincoli semi-biologici: parentela, vita in comune, partecipazione agli sforzi comuni, ai pericoli comuni, alle gioie comuni ed ai disagi comuni". Una società aperta, invece, presuppone che gli individui vedano se stessi come elementi indipendenti, in competizione tra loro. Interagiscono sulla base dei concetti di scambio e cooperazione, che gli economisti usano nei loro modelli "scientifici". Insomma, una società chiusa è una società di esseri umani legati fra loro a più livelli, una società aperta è una società di individui isolati. Rimuovendo le componenti tipicamente umane ma non razionali, Popper non si accorge di eliminare le basi stesse della civiltà, lasciando due soli elementi: la pura razionalità e l'istintività animale. Come ha dimostrato nella pratica il neurologo Damasio (l'errore di Cartesio, Adelphi, Milano 1995), un uomo con danni alla funzione emotiva non riesce più a vivere normalmente, ha difficoltà perfino a fissare la data per un appuntamento col medico. Platone distingueva nell'uomo la razionalità, l'animo irascibile e quello concupiscibile (nel mito del carro rappresentati dall'auriga, dal cavallo bianco e da quello nero). Popper vede solamente la ragione, perdendo di vista le altre due componenti. Come direbbe Platone, questo errore fa cadere la ragione in preda dell'anima concupiscibile. Guardate come viviamo: per far pubblicità ad una marca di pneumatici si usa l'immagine di una donna nuda. I valori come il coraggio e la lealtà, tipici dell'animo irascibile, scompaiono, a favore della ricerca del soddisfacimento degli istinti.

Popper contrappone razionalità e irrazionalità, rifiutandosi di analizzare la seconda. Ma possiamo chiamarlo razionalista? Assolutamente no. Popper è un empirista, crede che l'unico riferimento per la ricerca della verità sia l'esperienza, mentre il razionalista è colui che ritiene superiore la ragione, tanto da mettere in dubbio la realtà del mondo empirico.

Quest'ultima posizione è definita da Popper "pseudorazionalismo". Nella tradizione filosofica, è razionalista chi fonda la propria speculazione sulla sola ragione, empirista chi dà priorità all'esperienza. Popper considera essenziale la prova empirica, da buon filosofo della scienza, quindi il suo presunto razionalismo è invece empirismo. Per essere coerente dovrebbe affermare che la superiorità della società aperta si può dimostrare empiricamente, altrimenti cadrebbe nell'atteggiamento antiscientifico che contesta ai marxisti. Per questo più sopra ho affrontato sul piano empirico le sue affermazioni sul benessere creato dalla società occidentale, che alla prova dei fatti non reggono.

Popper, per il fatto di sottovalutare e non analizzare il lato irrazionale della mente umana, non si accorge che la libera competizione porta alla prevalenza del forte e del furbo, a scapito della collettività. Chi è lungimirante nella società aperta è perdente, perché soccombe dinnanzi a chi esercita il potere immediato. La razionalità è sconfitta, perché non può opporsi alla mera fisicità della forza e della bassa astuzia. Una classe dirigente che sa individuare scopi e metodi di lungo termine può sopravvivere soltanto se adotta regole che limitino la dinamica dello scontro sociale, politico ed economico. Una società che vede se stessa come un organismo pensa al proprio futuro remoto, mentre una società totalmente aperta non ha alcun tipo di consapevolezza collettiva. In questo tipo di società finisce per affermarsi una classe dirigente di bassa cultura e scarsa lungimiranza, capace soltanto di vedere obiettivi immediati e per di più legati al più gretto interesse economico. Se sta alterando il clima della Terra, ad esempio, affronta il problema in modo disordinato e conflittuale, senza mai riuscire a trovare una linea d'azione comune.

La mancata analisi dell'irrazionalità fa sfuggire a Popper la tremenda efficacia delle strategie irrazionali. La furbizia non è intelligenza, ma è molto efficace nella vita quotidiana. I metodi di propaganda basati sulla psicologia elementare hanno una potenza enorme, consentendo ai demagoghi di sopraffare la ragione dei cittadini. Osserviamo banalmente la pubblicità commerciale: è totalmente irrazionale e molto efficace. Induce persone di normale intelligenza a fare cose assolutamente stupide.
 

Il riduzionismo non è applicabile alla prassi politica

Popper teorizza che la politica consista nell'affrontare singole questioni, separatamente le une dalle altre. E' il metodo scientifico, certamente, che ci porta a semplificare i problemi e ridurre le variabili, isolando i problemi ed affrontandoli uno per volta. Questo si chiama riduzionismo: ricondurre i problemi complessi alla somma di tanti problemi semplici, riferiti ad un livello di complessità minore.

Proporre per i problemi politici i metodo riduzionistico non può portare al successo, perché si confonde il piano della politica con quello dell'amministrazione. Un politico non è semplicemente un amministratore, che affronta questioni pratiche su un piano strettamente tecnico. La politica è prima di tutto conciliazione di interessi individuali ma anche di strutture e gruppi della società umana. La teoria liberale, di cui quella popperiana è un esempio, non considera la complessità della società umana e presuppone che il cittadino si possa rapportare direttamente allo Stato. Non è così, per la banale ragione che lo Stato è troppo sproporzionatamente grande. Nella Politica, Aristotele dice che lo Stato ideale non dovrebbe avere più di 100.000 abitanti, ed ha ragione in questo senso: che strutture più grandi rendono necessari troppi livelli di mediazione. Oggi si ritiene comunemente che questo limite sia superato, ma non è così.

Nel mondo di oggi, infatti, i mezzi di comunicazione riescono a stabilire un rapporto diretto tra il capo politico ed il cittadino, che però ad un'attenta analisi risulta del tutto fittizio. Noi vediamo ogni giorno i capi di governo ed i presidenti in televisione, e ci illudiamo di avere con essi una relazione personale. In realtà questo rapporto è strettamente unidirezionale: noi li vediamo e li ascoltiamo, ma non possiamo minimamente influire su di loro. Nelle monarchie medievali il re passava il proprio tempo spostandosi sul territorio per visitare le regioni del reame e stabilire il proprio dominio attraverso la presenza fisica diretta, dato che non vi erano altri mezzi. Questo paradossalmente lo rendeva anche più accessibile ai suoi sudditi, che avevano la possibilità non solo teorica di chiedere udienza. Oggi vediamo i nostri presidenti tutti i giorni e crediamo che siano a portata di mano, mentre ciò che abbiamo è soltanto un'immagine, per di più manipolata dagli esperti della comunicazione.

La libera competizione delle idee non avviene dunque su un piano di parità. Il singolo è totalmente impotente di fronte ai gruppi di potere, perché ogni organizzazione sufficientemente dotata di mezzi economici è in grado di esercitare una potenza irresistibile per lo Stato stesso. Vediamo quel che sta accadendo sotto i nostri occhi: mancando il nemico esterno, l'Unione Sovietica, l'Occidente sta smantellando stato sociale, libertà di informazione, diritti individuali. Lo Stato liberale è impotente di fronte a organismi economici che manovrano capitali superiori al suo bilancio, se non esistono altre strutture oltre alle grandi imprese.

Perché le idee e le proposte dei cittadini possano essere anche soltanto prese in considerazione, occorre anche oggi una complessa struttura di mediazione sociale, che di fatto esiste ancora ma si va disperdendo, composta di associazioni di vario tipo, dagli ordini professionali ai sindacati ai partiti. E' una pura illusione pensare che si possano formulare proposte per poi sottoporle all'aperta competizione delle idee, quando l'arena di questa presunta competizione non esiste. La politica si fa attraverso i contatti diretti, i meccanismi associativi, le istituzioni private e pubbliche, che filtrano e mediano ogni relazione. I media non forniscono l'equivalente di un'agorà, dove tutti discutono dei problemi comuni su uno stesso piano, perché l'accesso attivo è limitato ad una ristretta minoranza di persone. Né potrebbe essere diversamente: Internet teoricamente lo consente, ma è evidente che non basta che ognuno metta in rete il suo parere. In qualche modo occorrerà che si formino gruppi e movimenti che costituiscano interlocutori attivi, in grado di ottenere considerazione da parte della società nel suo insieme. Senza forme associative di tipo politico o sindacale, restano solo le aziende! Infatti in Italia abbiamo come capo del governo il capo di un'azienda...
 

La società umana è organica e cooperativa

Ha senso dire che la società non dev'essere organica, ma che ognuno deve fare per sé? L'organicità è necessaria, perché ciascuno di noi non è sufficiente a se stesso, ha bisogno degli altri. La sopravvivenza di ciascuno di noi, la mia, quella di te che leggi, dipende dall'attività di centinaia, migliaia di persone che devono fare ciascuna la loro parte. Questo è particolarmente vero nelle nostre società tecnologicamente avanzate. Il cacciatore paleolitico era pressoché autosufficiente, tutt'al più poteva scambiare pelli o attrezzi con altri come lui. Io sto usando per scrivere un elaboratore realizzato attraverso il lavoro di migliaia di persone - e ad esempio se in questo momento mancasse l'energia elettrica sarei in un bel guaio. Dipendo in modo essenziale, quindi, dalle persone della società elettrica che mantengono in funzione impianti molto complicati - senza di loro non potrei nemmeno scrivere. Se stasera cenerò dipende dal lavoro di moltissime altre persone, dagli agricoltori ai commercianti ai camionisti fino ad arrivare alla cassiera del supermercato dove ho fatto la spesa. Ognuno di noi dipende letteralmente da milioni di altre persone.

Tutti abbiamo bisogno che tutti gli altri facciano la loro parte, ma ciascuno, se guarda solo il proprio interesse, è portato a farla poco e male. Chi fa funzionare la società sono quelle persone che per motivazioni come il senso del dovere, l'onestà, il fervore religioso, l'amore per il prossimo, si adoperano in un modo che soggettivamente e razionalmente sarebbe da considerare un danno per loro stessi, perché non sono compensati adeguatamente per quello che fanno. E' necessario che un numero sufficiente di individui si adoperi per la società, senza motivazioni giustificabili sul piano del rapporto puramente economico. Non basta dire a ciascuno: "Fa' quello che ritieni meglio, realizzati". Occorre invece che vi sia una consapevolezza della nostra dipendenza reciproca, quindi un'alta consapevolezza etica di tutti.

Secondo i classici del liberalismo, a partire da Adam Smith, la somma degli interessi individuali, attraverso il meccanismo del mercato, porta invece al buon funzionamento complessivo della società umana, anche se ciascuno persegue interessi strettamente egoistici. Le persone di cui parlavo faranno ciò che devono unicamente per interesse economico. Popper non fa altro che ribadire questa tesi, senza neanche approfondire l'analisi. Se però assumiamo un atteggiamento popperiano, dobbiamo chiederci se questa tesi sia scientifica, cioè falsificabile, oppure no. Ci accorgiamo allora che si tratta più di una fede pseudoreligiosa che di un'ipotesi scientifica. L'esperienza quotidiana di chiunque dimostra che la sola motivazione economica non è affatto sufficiente a spingere le persone a fornire prodotti e servizi adeguati alle necessità. La libera concorrenza teoricamente dovrebbe favorire chi lavora meglio, ma non lo si riscontra affatto.

Se consideriamo gli esempi reali tratti dalla storia, scopriamo che la libera concorrenza non favorisce una maggiore efficienza ma soltanto la concentrazione della ricchezza in poche mani. Ci sono casi in cui il concetto stesso non è applicabile, come ad esempio i servizi pubblici: un regime di libera concorrenza non è fisicamente possibile nel mondo di oggi, lo era certo di più nelle società antiche. Trasporti pubblici, energia elettrica, telecomunicazioni non consentono una reale concorrenza, per cui la privatizzazione del servizio causa inefficacia ed inefficienza, come hanno potuto constatare i cittadini britannici, che hanno visto tutti i servizi, ottimi sotto i governi laburisti di tanti anni fa, andare in rovina sotto il liberismo della signora Thatcher, la cui politica è stata protratta fino ai nostri giorni anche con il sedicente laburista Blair. I gestori privati hanno alzato i costi per la cittadinanza peggiorando il servizio. Gli Stati Uniti sono un pessimo esempio di gestione dei servizi, che laggiù sono sempre stati privati.

Anche tra soggetti privati la competizione economica è fasulla, perché la società più grande e ricca può buttare fuori dal mercato i concorrenti che hanno prodotti migliori ma non il suo potenziale di diffusione commerciale, lecita od illecita, vedasi la storia della Microsoft. Oggi abbiamo una grave crisi del mercato dell'automobile, e si sostiene che ci siano troppi costruttori al mondo: si dà per assodato che presto si accorperanno fra loro fino a ridursi a tre o quattro in tutto il mondo. Ma che libero mercato è? Questo è oligopolio, per non dire sostanzialmente monopolio, non potendosi pensare che i Tre Grandi rimasti non si spartiscano il mercato tra loro con accordi sottobanco. Il libero mercato presuppone che l'acquirente possa scegliere tra più prodotti, premiando chi dà il meglio al minor prezzo, ma come può accadere questo se ci sono soltanto tre produttori nel mondo intero? Per di più, ciascuno di questi colossi finisce per essere così grande da detenere un potere anche politico del tutto esorbitante, impedendo ad esempio che i governi possano controllare la loro attività per evitare pratiche illecite o dannose per il cliente, che non per niente oggi è detto consumatore. La parola cliente presuppone un rapporto di frequentazione e di fiducia, mentre un consumatore è semplicemente un terminale della produzione industriale, che utilizza e trasforma in spazzatura quanto prodotto dalla Grande Macchina.

Sempre nel settore automobilistico, pensiamo al lavoro di un meccanico che fa una riparazione: che tipo di motivazione può spingerlo a lavorare con cura e con metodo corretto, piuttosto che frettolosamente ed in modo trascurato? Il senso personale dell'etica del lavoro ha un peso notevole; anche l'eventuale rapporto a lungo termine con il cliente ha la sua importanza; ma chi lavora per una grande officina dove si riparano centinaia di automobili di clienti di fatto anonimi, che tipo di motivazione può avere a fare un buon lavoro? Il principio liberista dice che, se scopro che un meccanico lavora male, la volta successiva andrò da un altro. Ma come posso giudicare il suo lavoro se non sono esperto? dovrò aspettare che il guasto si ripeta o che ne compaia un altro, causato dall'intervento sbagliato, ma come ne capirò il motivo? Evidentemente anche in una relazione semplice come questa esiste una componente importante, il rapporto fiduciario tra cliente e fornitore di servizi, che non è riducibile al fattore economico, ma si basa su un rapporto tra persone e sull'etica stessa.

Se passiamo a considerare lo svolgimento delle attività lavorative all'itnerno delle aziende, ci accorgiamo che la competizione sfrenata porta semplicemente al predominio del furbo arrogante, mentre il buon andamento delle cose rimane affidato a chi lavora per propria convinzione etica, senza pensare soltanto al successo economico. Chi conosce il mondo del lavoro sa che chi dedica le proprie energie a svolgere bene la propria attività è generalmente superato da chi si dedica esclusivamente alla carriera, che finisce per ricoprire i ruoli più alti nelle aziende senza aver mai fatto alcunché di utile.

Ma dov'è l'errore? E' semplice: i teorici dell'economia liberale confondono, lascio decidere al lettore se per errore o deliberatamente, la propria categoria sociale con la totalità. Trascurano il fatto banale che la maggioranza dell'umanità è esclusa dal meccanismo della libera competizione, e svolge il ruolo di manodopera a basso costo o di acquirente delle merci, rimanendo al di fuori del miracoloso meccanismo che dovrebbe portare al benessere tramite l'egoismo. L'unico benessere prodotto dall'egoismo è quello di una minoranza di egoisti di successo, il resto dell'umanità lavora per produrre quel benessere, e lavora tanto più indefessamente quanto più crede che sia possibile migliorare la propria condizione lavorando di più, illusa dalla propaganda liberale per la quale il lavoro onesto prima o poi porta ad un miglioramento sociale. Tentando tutti la scalata al successo, alimentano i pochi che effettivamente lo raggiungono. Quel che accade oggi è che, di fronte all'inefficienza crescente del sistema, un numero sempre maggiore di poveracci mantiene il benessere sempre più esclusivo di una minoranza sempre più ristretta.

Il presupposto non dichiarato dell'economia liberal/liberistica è che la maggioranza dell'umanità deve vivere nell'illusione di poter migliorare la propria condizione, affinché una minoranza possa godere dei benefici del lavoro degli altri.
 

Il dualismo società aperta/chiusa è una semplificazione indebita

Popper sbaglia totalmente quando dice che la società primitiva è organica mentre quella moderna è individualista. Si potrebbe sostenere anche l'esatto contrario. Il modello individualista è tipico delle società di cacciatori-raccoglitori, in cui l'interdipendenza è minima. Oggi l'ideologia individualista ci viene dall'America, non a caso: la cultura americana nasce dalla colonizzazione di territori vergini e dalla guerra tra immigrati e tribù locali nomadi. L'individualismo americano nasce dalla mentalità del pioniere-conquistatore, influenzata fortemente da quella del suo stesso nemico, il nativo nomade della prateria. Popper dice che la società primitiva si basa sul tabù, sulla regola assoluta che è percepita come immutabile elemento della natura. Niente di più falso: nessun antropologo crede più alla teoria del tabù (che era ancora in voga comunque quando Popper scriveva). Per fare un esempio, i nativi americani (detti anche indiani d'America) delle praterie erano individualisti, egualitari, intraprendenti. Quella che Popper considera come società umana primitiva è la società a base agricola, nata in epoca storica.

Questa confusione deriva dal fatto che Popper accomuna nella categoria delle società chiuse una quantità di modelli differenti, mentre la cosiddetta società aperta è solo una, quella liberale-individualistica. Chiama tribale qualunque società che non sia quella capitalistica di stampo anglosassone. Ma non è così, le società che Popper definisce chiuse sono di molti tipi diversi.

E' assolutamente falso, ad esempio, che il totalitarismo in generale sia una restaurazione di un qualche ordine tradizionale. Prima di tutto occorre evitare di confondere il nazifascismo col comunismo. Il comunismo nasce da un progetto di società, che può essere giusto o sbagliato, applicato bene o male, ma è un progetto razionale. Il nazismo, il fascismo e altre forme equivalenti non hanno alcuna base razionale, sono tirannidi in senso classico, incentrate sulla personalità del capo e fondate sulla demagogia più elementare. Il comunismo si basa sul principio dell'uguaglianza, il fascismo sulla disuguaglianza. Il comunismo è un tentativo, storicamente non riuscito, di instaurare una democrazia autentica, il fascismo invece ha il solo scopo di perpetuare il potere di un singolo e di una classe. La natura dittatoriale dei regimi comunisti del XX secolo costituisce un tradimento dell'ideale comunista: il processo rivoluzionario per sua natura tende ad evolversi nel predominio di un gruppo dirigente che assume il carattere di una nuova classe dominante. Viceversa, la natura dittatoriale del fascismo è sua propria innata, ne è parte costitutiva. Dal punto di vista platonico, il comunismo è un tentativo malriuscito di instaurare un regime razionale, mentre il fascismo è la normale degenerazione tirannica della democrazia.
 

La società aperta è democratica?

Non è neanche vero che democrazia, liberismo economico e società aperta siano compagni inseparabili. La "libera" competizione economica porta invece alla predominanza della grande azienda, che al proprio interno è una struttura totalitaria. Del totalitarismo assume anche le inefficienze tipiche: una delle più gravi è l'instaurazione della promozione della fedeltà e della sottomissione in luogo di quella del merito.Questo porta, a lungo termine, ad una perdita di efficienza ed efficacia, senza che il meccanismo del mercato possa interferire. La concorrenza viene infatti sopraffatta con metodi che col libero mercato non hanno nulla a che vedere: la pura e semplice superiorità derivante dalle maggiori dimensioni, le pratiche commerciali scorrette e truffaldine, l'aiuto dello Stato, anche solo attraverso l'assegnazione di commesse pubbliche militari o civili. Certo, a lungo andare anche le società monopoliste finiscono per decadere fino a scomparire, come del resto accade ai regimi totalitari, ma si tratta appunto di un esito da regime politico più che da azienda operante nel libero mercato.

La democrazia come l'abbiamo definita non richiede il libero mercato. Le idee sì devono confrontarsi liberamente, ma questo comporta che non siano trattate come merce. Abbiamo visto che la società aperta, nelle condizioni reali in cui è stata realizzata, tende a degenerare in un altro tipo di società chiusa. In mancanza di precisi vincoli, il libero mercato distrugge la democrazia tramite il monopolio delle grandi società finanziarie.
 
 

Conclusione: dov'è l'errore?

La società aperta sarebbe una bella cosa? Se, ripeto, la società chiusa è quella "i cui membri sono tenuti insieme da vincoli semi-biologici: parentela, vita in comune, partecipazione agli sforzi comuni, ai pericoli comuni, alle gioie comuni ed ai disagi comuni", allora io come essere umano scelgo la parentela, la vita in comune, la partecipazione agli sforzi ed ai pericoli comuni, alle gioie ed ai disagi comuni, insomma la vita umana, e quindi la società chiusa. Gli esseri umani sono fatti per vivere in comunità, non come atomi di un gas sociale basato sulla razionalità perfetta. I modelli sociali che Popper taccia di tribalismo e chiusura sono semplicemente tutti i modelli che non corrispondono all'individualismo più spinto. Non esistono società semplicemente aperte e chiuse, esistono infiniti modelli e l'alternativa di Popper andrebbe definita propriamente come individualismo/comunitarismo e non come apertura/chiusura.

Popper è caduto in un errore tipico degli empiristi: non si è accorto di dare per scontate molte condizioni essenziali, cadute le quali il suo ragionamento non è più valido. La libera competizione di idee ed iniziative che caratterizza la società aperta funziona soltanto se esiste un sottofondo culturale che la sostiene e la regola. Tutte le proposte devono ricadere in un ambito definito, che comprende regole etiche e perfino procedurali, altrimenti il sistema degenera rapidamente. Gli scienziati sono particolarmente inclini a trascurare questo aspetto, perché la comunità scientifica funziona appunto così: è una comunità di persone che condividono una cultura molto forte e definita, all'interno della quale si svolge una competizione aperta di idee che sono comunque compatibili con questa cultura. Il costante confronto con l'esperimento, ripetibile da parte di tutti gli altri membri della comunità, fornisce un vincolo anche etico molto forte, perché chi manomette i risultati viene scoperto più facilmente che in altri campi. E' un luogo comune, ma ampiamente verificato, che gli scienziati sono solitamente cattivi gestori perché non riescono a padroneggiare l'aspetto umano dell'organizzazione. La società aperta di Popper è l'idea della politica che può avere uno scienziato, o un filosofo della scienza come lui, che confonde il mondo della società umana in generale col mondo ristretto dei laboratori e delle istituzioni accademiche.

L'apertura incondizionata è insostenibile. La società umana deve fondarsi su una solida base etica, senza la quale degenera in una dittatura brutale dei pochi sui molti. Le società che Popper chiama chiuse hanno sempre un riferimento di questo tipo, che sia il marxismo o una religione o un modello di società civile, come nell'antica Roma. Se la società aperta è quella senza riferimenti, guardiamocene bene! Se invece è il liberalismo storico, perché dobbiamo considerarlo diverso da tutte le altre società, visto che aveva anch'esso un riferimento forte, il cristianesimo protestante? La sua attuale degenerazione può essere anche vista come una perdita di questo riferimento etico.

Quale base etica dobbiamo darci allora? Una che sia basata su principi realmente universali, e all'inizio di questo scritto ho provato a tratteggiarla. Chiudiamo le digressioni critiche e torniamo quindi al tema iniziale.

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Per una società solidale

Da ciascun pensatore possiamo trarre insegnamenti. Questo non vuol dire essere eclettici e raccogliere un elemento qui ed uno là, costruendo una chimera che forse somiglierebbe piuttosto al mostro di Frankenstein, ma studiare, comprendere, assimilare ciò che i maestri dell'umanità hanno detto e fatto, per poi farne uso non ritagliandone pezzi da incollare in qualche modo ma costruendo qualcosa di nuovo che da quanto si è appreso tragga ispirazione.

Le utopie sono interessanti ed anche utili come riferimenti ideali, purché non si cerchi di realizzarle concretamente. Non tentiamo quindi di formularne un'altra, ma di indicare spunti per procedere verso una società migliore.

I principi che abbiamo enunciato non prescrivono un particolare tipo di struttura sociale, ma sono soltanto elementi base che devono essere presenti affinché si possa parlare di democrazia nel senso lato che abbiamo indirettamente definito. L'insegnamento dei liberali ci ha fatto capire che dobbiamo guardarci dal razionalismo puro e dal tentativo di realizzare le utopie, come gli errori del comunismo sovietico ci hanno confermato. Ma il fatto stesso di fondarci su considerazioni etiche ci ha spinti ad includere la giustizia sociale tra i principi della democrazia, espungendo invece il liberismo economico.

Popper critica chi parla di fondare la convivenza umana sull'amore, perché l'amore sarebbe un sentimento soggettivo, non suscettibile di trattamento razionale. Ma la parola amore ha molti significati, ed in questo fra l'altro Platone ci è maestro. Il punto cruciale è che, essendo l'uomo al centro della questione e non l'istituzione, la sfera soggettiva e irrazionale (o forse arazionale) è di importanza cruciale. Una società umana totalmente empirista e quindi aperta sarebbe tanto mostruosa quanto ogni altra utopia realizzata. Questo esperimento, purtroppo, è in corso ed anzi sta già degenerando. Trascurare la potenza della sfera arazionale porta al sopravvento della sua parte peggiore, l'istinto bestiale.

I filosofi dell'Oriente ci hanno insegnato che è possibile trovare metodi oggettivi riferiti alla sfera spirituale dell'uomo, sviluppando una scienza dello spirito che in Occidente non esiste, in quanto i maestri occidentali non hanno mai saputo o voluto tradurre questa parte del loro insegnamento in un metodo vero e proprio. Il nucleo del pensiero platonico somiglia molto alla filosofia induista, ma Platone non volle metterlo per iscritto in forma completa, ritenendo indispensabile il dialogo diretto e personale per la trasmissione di questo tipo di sapere. Si tratta di una posizione seria, condivisa da molti anche in Oriente, a partire dai maestri Ch'an/Zen. Il rischio legato al cattivo uso dei metodi spirituali dell'Oriente è sotto i nostri occhi ogni giorno, nella forma del ciarlatanismo pseudoorientale dilagante (New Age e simili). Così come la scienza empiristica della natura, capolavoro della cultura occidentale, è stata trasformata in metodo di sfruttamento della natura e dell'uomo, portando alla devastazione dell'ambiente in cui viviamo ed alla creazione metodi inauditi prima di sottomissione materiale e psichica dell'umanità, oltre che alla realizzazione di armamenti capaci di distruggere il mondo come noi lo conosciamo. Purtroppo in Occidente si è avuta una forte cesura culturale tra mondo antico e medievale, che ha interrotto la trasmissione del sapere del mondo antico per un certo tempo. Il monoteismo giudaico / cristiano / islamico ha imposto un modello di spiritualità molto rigido, togliendo spazio a quel tipo di sviluppo che in Oriente invece è in qualche modo sopravvissuto (e non dimentichiamo, appunto, che l'Islam è da considerare occidentale).

Il punto di partenza di qualunque progetto di miglioramento della società siamo noi stessi, ciascuno di noi nella sua propria umanità individuale. Non atomi di una società empirico/razionale alla Popper, ma persone capaci di comprendere se stesse e gli altri, consapevoli della propria umanità in tutti i suoi aspetti. Dobbiamo prima di tutto combattere in noi stessi la spersonalizzazione dei rapporti con gli altri, quella depersonalizzazione di cui parla appunto Popper (libro I cap. X punto 1). Lungi dall'essere incapace di risolvere i problemi (Libro II cap. XXIV punto 3), l'amore per il prossimo di cui parla il Vangelo è al centro dell'autentica convivenza umana. Perché la stessa etica kantiana, che è razionalistica, appunto per questa sua natura deve trarre origine da assiomi, e l'assioma base è il principio dell'universalità, per il quale tutti i soggetti sono equivalenti. L'accettazione di questo assioma è equivalente all'amore universale. Nel buddismo troviamo lo scambio del te e del me in quanto uguali (aspetto razionale), ed i quattro stati sublimi: benevolenza, compassione, gioia altruistica, equanimità (aspetto spirituale, arazionale). Ho voluto citare esplicitamente tre diverse vie, quella cristiana, quella del razionalismo occidentale e quella buddista, non per fare sincretismo ma per far capire che esistono molti sentieri nella sfera dello spirito, diversi eppure non contraddittori. La differenza non contraddittoria può essere intrattabile nella logica formale, ma è la base dello sviluppo umano individuale e poi collettivo. Non tolleranza soltanto, ma comprensione delle diverse vie. La parola tolleranza implica un giudizio di superiorità per una certa tesi, mentre le altre sono ammesse per magnanimità; viceversa qui non si vuole che si tolleri, ma che tutti capiscano e amino.

Dobbiamo realizzare la società aperta, ma non quella degli atomi razionali/empirici, quella invece degli individui pienamente umani. E' stato riscontrato in tutti i paesi poveri che l'aumento della scolarizzazione porta all'aumento della qualità anche materiale della vita. Viceversa, il decadimento delle nostre società opulente è legato anche alla perdita di cultura ed alla diseducazione portata dai media degradati. E' l'apertura mentale ciò che dobbiamo ricercare prima di tutto in noi stessi e poi promuovere nella società. Conservandola dove si va perdendo, favorendola dove manca.

Credo che l'atteggiamento che dobbiamo tutti imparare ed insegnare sia stato espresso molto bene in queste parole, attribuite al maestro e fondatore di una delle religioni (e filosofie) più importanti, Buddha Sakyamuni:
"Questo io ti ho detto, o Kalama, ma tu puoi accettarlo, non perché è un racconto, non perché è una tradizione, non perché così è stato detto nel passato, non perché così è detto nelle nostre scritture, non per motivo di discussione, non a causa di un metodo particolare, non perché sia preso in grande considerazione, non perché appare essere conveniente, non perché il tuo maestro è un asceta, ma se voi stessi vi rendete conto che è meritorio e non riprovevole e quando è accolto porterà vantaggio e felicità, allora sì voi potete accettarlo" (Anguttara-Nikaya, III, 65, 14, citato da G. Tucci in Storia della filosofia indiana, cap. III).

Non si tratta dunque di realizzare una libera competizione, e che vinca il migliore (non capita mai), ma di cercare comprensione ed aiuto reciproco. Dovremo sostituire il sistema dell'individualismo e dello scontro con il sistema della solidarietà e della cooperazione, ce lo impone la capacità tecnica, che abbiamo acquisito, di distruggere il nostro mondo. Se non lo faremo, periremo. Nel film sull'attività di Emergency in Afghanistan, un medico afferma che è ora di ricominciare a fare le cose perché bisogna farle, non per guadagnarci qualcosa.

Al di là del volontariato e dell'impegno sociale, è già nato un modello di produzione solidaristica nel campo del software, attraverso il movimento del software libero. Si dovrebbe studiare questo modello per estenderlo ad altri campi, cercando di farne un'alternativa generalizzata al predominio del capitale finanziario e delle grandi aziende, cosa che il volontariato non può e non deve essere. Non è poi un concetto così nuovo, perché la comunità scientifica mondiale della ricerca, prima che se ne impadronissero appunto le grandi società finanziarie ed industriali, funzionava in modo simile: le scoperte erano diffuse appena fatte e messe in comune, ciascuno proseguiva il lavoro degli altri aggiungendo il suo contributo. Le grandi scoperte della fisica da Galileo fino alla prima metà del XX secolo furono ottenute così. Oggi invece si parla di proteggere gli investimenti in ricerca imponendo il segreto o il brevetto su qualsiasi scoperta. Forse si dovrebbe invece restringere il concetto di proprietà intellettuale, riservandolo alle persone fisiche ed alle loro opere dirette, rendendolo per di più inalienabile.

Sarà inevitabile affrontare di nuovo il problema dei limiti da imporre alla proprietà privata. Il mondo in cui viviamo è nostro, di tutti, non di qualcuno in particolare. La proprietà privata è un diritto quando si riferisce ai beni di cui un essere umano deve disporre per vivere, ma non ha senso razionale estenderla fino al possesso di ciò che spetta all'umanità vista come un insieme. Il puro possesso delle risorse necessarie alla collettività è un'ingiustizia colossale nei confronti dell'umanità. Chi è nato sopra un giacimento di petrolio, ad esempio, ha il diritto di essere compensato per il disagio che subisce qualora si sfrutti il giacimento, ma non ne è proprietario per dono divino. Non essendone proprietario, non può neppure vendere i diritti di sfruttamento ad un altro. E nessuno può recintare un'area dove si trovano risorse primarie rivendicandola con la forza come sua, per poi arricchirsi vendendone i frutti. Ugualmente, la pura proprietà della terra non connessa direttamente alla sua coltivazione o abitazione non ha senso etico. Chi coltiva la terra è di diritto proprietario dei risultati del suo lavoro, e quindi della terra stessa, ma solo in quanto essa è strumento del suo lavoro. La proprietà del latifondista non è eticamente giustificata.

Per quanto riguarda il mondo della finanza, la maggioranza delle religioni tradizionali condannano il prestito ad interesse, perché associano il guadagno al lavoro. Possiamo ammettere eticamente il prestito a fronte di un compenso, soltanto se questo è commisurato al mantenimento del diritto del prestatore, che perde la disponibilità della somma di denaro e ne rischia la svalutazione. Abbiamo già visto nell'etica minima come l'etica del rapporto economico richieda, sempre in base all'eguaglianza ed alla reciprocità, che il lavoro abbia un compenso, come del resto sostengono le dottrine religiose; vale però anche l'inverso, la pretesa di un compenso deve avere una contropartita di lavoro. La dottrina capitalistica pretende che gli alti redditi da capitale siano giustificati dal rischio imprenditoriale, ma questo equivale a dire che l'attività imprenditoriale è un gioco d'azzardo. Eticamente, chi decide di impegnare risorse in un'attività, dovrebbe valutare preventivamente i rischi ed affrontarli in modo adeguato sul piano delle precauzioni, non pretendere un alto compenso per il fatto di non averli considerati. Distruggere risorse economiche in investimenti sbagliati non è qualcosa che riguarda solamente l'imprenditore, perché ha implicazioni molteplici. Pensiamo ai lavoratori assunti per l'impresa e poi rimasti senza lavoro, pensiamo alle risorse naturali utilizzate in modo errato e quindi sprecate. Intraprendere o gestire un'attività economica in modo avventato offende l'umanità in molti modi. In primo luogo, significa trattare i lavoratori come cose, come puri mezzi di produzione: c'è quindi una violazione diretta del principio dell'etica, che impone di trattare tutti come persone.

Consideriamo il linguaggio corrente della classe imprenditoriale: i lavoratori diventano manodopera in esubero, mentre si aprono e si chiudono attività industriali come se si trattasse di spostare pedine in un gioco da tavolo. Si pubblicizza la borsa come mezzo di sviluppo, quando è chiaro a tutti che si tratta di un meccanismo insensato, irrazionale, sostanzialmente paragonabile ad un casinò. Anche per il fatto che c'è chi gestisce il gioco e ne trae lauti guadagni senza rischi.

La mentalità da giocatore d'azzardo, o da gestore di giochi d'azzardo, della classe dominante attuale è ben visibile anche nelle sue imprese belliche. La guerra dal punto di vista etico è qualcosa di orribile, abbiamo visto nell'etica minima come siano limitati i casi in cui si può giustificare la violenza bellica; la guerra offensiva è comunque sempre un delitto, eppure vediamo capi di governo che la presentano come un dovere!

E' necessario che tutti coloro che sono consapevoli di questa situazione si adoperino in primo luogo a tenere viva la consapevolezza e la luce della vera ragione, resistendo all'attacco in corso da parte di un sistema di potere spietato che tenta di impadronirsi del mondo intero e di soggiogarlo con il pensiero unico. Ma non è sufficiente la difesa, dobbiamo cercare di costruire nuovi modelli di convivenza, che possano consentire all'umanità di superare la crisi e ricostruire la società umana su basi che non sono nuove, ma semplicemente devono essere reinterpretate per i nostri tempi, dato che indietro non si torna: ciò che è stato fatto ha comunque modificato il mondo in cui viviamo, e gli insegnamenti dei grandi del passato sono potenti fari che possono guidarci, ma non devono essere adottati come nuove prigioni mentali. Non lasciamo l'opposizione agli integralisti, sosteniamo invece l'apertura, prima di quella della società quella della mente.

Alberto Cavallo, agosto-novembre 2002

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Note bibliografiche

Elenco qui i libri citati, per facilitare il lettore.

CANFORA, LUCIANO, Critica della retorica democratica, Laterza, Bari 2002.
Il testo che mi ha dato lo spunto iniziale.

VIDAL, GORE, La fine della libertà, trad. it. di Laura Pugno, Fazi Editore, Roma 2001.

POPPER, KARL, The Open Society and its Enemies, 1966V, trad. it. La società aperta ed i suoi nemici, a cura di Renato Antiseri trad. di Renato Pavetto, Armando Editore, Roma 1996.
Uno dei testi più citati, ha trattato male Platone e qui ho trattato male lui.

TUCCI, GIUSEPPE, Storia della filosofia indiana, Laterza, Bari 1977II, ristampato da TEA, Firenze 1992.
Fondamentale sulla filosofia indiana.

Per i riferimenti alla storia indiana cito un paio di libri da cui ho tratto spunti.
WOLPERT, STANLEY, A new history of India, Oxford University Press, Oxford 1989III, trad. it. Storia dell'India, trad. di Daniela Sagramoso Rossella, Bompiani, Milano 1992
BEHR, HANS-GEORG, Die Moguln, Econ Verlag, Wien und Düsseldorf 1979, trad. it. I Moghul, di Adriano Caiani, Garzanti, Milano 1985.

Per Platone, tra le molte edizioni posso citare un'ottima edizione integrale delle sue opere in traduzione italiana:
PLATONE, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1994IV.
ed una della Repubblica col testo originale:
PLATONE, La Repubblica, traduzione di Franco Sartori e testo greco a fronte, Laterza, Bari 1997 (collana economica Laterza).

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