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DIALOGO MULTICULTURALE



17 febbraio 2002

Pubblico con piacere un contributo dell'amico Giuseppe Aschieri, che si ispira ad alcuni concetti espressi in Etica minima per trattare di dialogo multiculturale. Aggiungo al fondo alcune righe di commento.
 

Dialogo multiculturale

In un'intervista del novembre scorso Rona Mansuri, una delle donne invitate al tavolo delle trattative per la pace in Afghanistan dopo la sconfitta dei talebani, ha risposto così alla domanda del giornalista a quale etnia appartenesse: "sono afghana e mi batto perché nessuno faccia più questa domanda".

La breve risposta di Rona dà lo spunto ad alcune riflessioni. L'identificazione etnica, che costituisce certamente un fattore di coesione e di appartenenza all'interno di una tribù, può diventare facilmente, se mal interpretata e vissuta, un ostacolo al dialogo con altre realtà etniche. Rona con le sue parole non voleva certo rinnegare le tradizioni e la cultura dell'ambiente sociale in cui è cresciuta, ma rivendicare che c'é qualche cosa  al di sopra dell'identità etnica e che il dialogo per la costruzione di un nuovo Afghanistan deve prescindere dai particolarismi etnici. L'identità etnica infatti può essere usata - e purtroppo assistiamo tutti i giorni a questo uso distorto - per creare delle divisioni, dei muri, dove da una parte ci sono gli amici e dall'altra i nemici, da una parte i buoni e dall'altra i cattivi, ecc..

Questo uso illegittimo della propria identità, questa forma di patologia è purtroppo una delle principali cause delle tragedie della nostra epoca. Uno degli impegni primari dell'uomo di pace oggi dovrebbe essere rivolto contro l'uso distorto delle identità culturali e contro la stumentalizzazione che forze di potere sovente ne fanno, facendo esplodere in maniera epidemica la forma patologica dell'identità culturale.

Chiamerò questa forma patologica "etichettatura", indicando sia il darsi un'etichetta, sia il dare ad altri un'etichetta. L'etichetta riassumerebbe ciò che caratterizza un'individuo non come suo attributo ma come sua natura, come sua essenza, come carattere indelebile e immutabile che lo accompagnerà per tutta la vita. Si possono trovare esempi di etichettature sotto tutti i cieli e in tutte le epoche e ben conosciamo i disastri che hanno provocato. Le etichettature possono riguardare l'etnia (sono serbo, sono croato, sono basco, sono pashtun, ecc.), la religione (sono cristiano, sono musulmano, ecc.), la razza (sono bianco, sono negro, sono ariano, ecc.), ed in loro nome Dio solo sa quante guerre sono state scatenate!

Ma quale contenuto hanno oggettivamente le varie identità in cui si sono riconosciuti individui e popoli? Che dietro un'identità etnica o culturale ci sia una ben precisa essenza che ne costituisce l'intima realtà, la sua vera natura, la sua anima è un modo di pensare metafisico (l'essenzialismo tipico dell'impostazione filosofica di Aristotele)  ma non aderente ad una oggettiva e documentata descrizione dei fatti.

E proprio dal tentativo di descrivere e di caratterizzare le identità che più volte si sono dati gli individui si scoprono delle cose piuttosto interessanti. La prima di queste è che le identità in cui si riconoscono gli individui sono tutt'altro che immutabili nel tempo, ma, come tutte le cose vive, sono soggette a un continuo cambiamento e ridefinizione con il passare del tempo. La seconda è che in ogni caso i contorni delle identità, fotografate in un dato istante, sono tutt'altro che definiti: sono infatti sfumati, sfrangiati, privi di bordi, incredibilmente dipendenti da variazioni anche lievi nella descrizione dell'identità. La terza infine è che non esiste un'identità pura ma sono tutte, e per fortuna, "bastarde" (nel caso ci si dovesse un giorno imbattere in una identità che potremmo chiamare "pura", ci troveremmo di fronte a qualche cosa che avrebbe il sapore più del fossile che di una realtà viva); detto in altri termini le identità culturali sono tutte soggette a "ibridazione", cioè ad un processo continuo e dinamico di scambio culturale che non tende comunque, come ci si potrebbe aspettare, ad omogeneizzare le culture ma che porta piuttosto (in assenza di situazioni di dominio quale quello del periodo coloniale e di quello odierno di neocolonialismo) ad una reciproca inseminazione con mantenimento di un alto grado di pluralismo culturale.

Il dialogo interculturale potrebbe essere aiutato dalle considerazioni fin qui esposte per evitare che degeneri a scontro tra "etichette". Ma in ogni caso si impone una critica del concetto stesso di "dialogo tra culture" perché il dialogo è sempre e solo tra uomini, ognuno dei quali ha sì un proprio bagaglio culturale e religioso ma bagaglio che non costituisce la sua essenza ma solo un abito che si porta addosso, perché l'unica essenza che legittimamente può rivendicare è quella di essere uomo, di appartenere cioè al genere umano. Il dialogo ha senso solo se l'individuo si pone come uomo di fronte ad un altro uomo, senza che una presunta identità si anteponga alla sua identità primaria di uomo. L'uomo è al di sopra delle etichette non l'etichetta al di sopra dell'uomo.

A questo riguardo ci possono essere d'aiuto alcune riflessioni linguistiche: i termini  abito e costume hanno il significato corrente sia di vestito sia di usanze e atteggiamenti culturali: parlando infatti di cultura di un popolo ci si riferisce ai suoi costumi, parlando delle sue credenze ci si riferisce al suo abito mentale, parlando dei suoi comportamenti morali ci si riferisce alla sua etica (ethos in greco vuol dire ancora una volta costume) e chiamiamo le sue usanze abitudini. Ma come non bisogna confondere l'uomo con i suoi vestiti altrettanto deve essere fatto per i suoi usi e costumi: il dialogo non può essere quindi che tra esseri umani senza che venga inficiato da etichette.

Giuseppe Aschieri

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Questo breve articolo, fornisce molti spunti da sviluppare (e ne ringrazio l'autore, che in realtà ha già dato un notevole contributo a questo sito attraverso commenti ai contenuti ed ancor più con le nostre discussioni filosofiche "al caffé") . Condivido l'idea che le identità culturali pure non esistono come essenze. Tuttavia ritengo che siano tutt'altro che superficiali: anzi, condizionano l'esistenza umana molto profondamente, assai più delle idee trasmesse dai media o apprese a scuola. Ciascuno di noi vede il mondo attraverso un suo personale "filtro" o se vogliamo un occhiale colorato e deformante, di cui la componente "etnica" non costituisce parte secondaria. Lo studio della diversità tra le culture dei popoli può servire non tanto a toglierci questi occhiali, quanto almeno a farcene apprendere l'esistenza.

Devo poi fare un appunto filologico: abito (latino habitus, sostantivo derivato dal verbo habeo) vuol dire "come ci si ha", quindi che forma, aspetto, atteggiamento si ha - e quindi anche come ci si veste. L'espressione "abito mentale" viene direttamente dal latino nel senso originario di "com'è la mente", non ha nulla a che fare con i vestimenti. Il greco "ethos" vuol dire uso, abitudine, consuetudine e non contiene alcun riferimento al vestirsi. Ciò che hanno in comune "cultura", "habitus", "ethos" è che si riferiscono a ciò che si apprende, si acquisisce e non alla propria natura originaria. Gli antichi ritenevano che le differenze tra i popoli fossero acquisite e non intrinseche alla loro natura: i greci per primi arrivarono a sostenere che chi accoglieva la loro cultura era ellenico, a qualunque popolo appartenesse in origine. L'universalità è componente essenziale della cultura classica, che si contrappone alle culture etniche fin'allora prevalenti e che ancor oggi taluni cercano di sfruttare a fini di dominio. Pensiamo alla cultura ebraica: non si può diventare ebrei studiando la loro cultura, ebrei si nasce e non si diventa. Il cristianesimo si diffuse nel mondo unendo alle sue radici ebraiche l'idea ellenistica dell'universalità.

E l'essenzialismo? Come studioso dei classici, ritengo che l'essenzialismo sia una malattia propria di alcuni, come Aristotele, ma estranea ai più. Pensiamo ad Eraclito che dice "nello stesso fiume entriamo e non entriamo, siamo e non siamo". La grande corrente che va da Parmenide attraverso Platone e l'Accademia fino ai neoplatonici non è per me essenzialista, le idee sono, per questi filosofi, archetipi di cui il mondo è copia pallida ed imperfetta: le differenze tra i popoli, ad esempio, non sono che un elemento di questa imperfezione, e l'origine del reale è soltanto l'Essere (tò òn), o l'Uno (tò èn). Gli atomisti ed Epicuro non sono per niente essenzialisti. Gli stoici neanche. L'essenzialismo è proprio della corrente naturalistica, sempre minoritaria nell'antichità.

Uno dei fondamenti della classicità, intesa come categoria, è appunto l'universalità, contrapposta al particolarismo ed all'etnicità. Oggi stiamo scivolando verso un'era di tipo medievale, quindi etnica e culturalmente chiusa, uscendo dalla modernità, che era classica, universale.

Alberto Cavallo

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