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VERITA', CONOSCENZA, MISTICISMO



Pagina pubblicata il 19 maggio 2002.

Indice


Introduzione

Pubblico in questo documento una lettera e due scritti di Giuseppe Aschieri su temi correlati a quelli già da me presentati nel sito. Grazie agli spunti forniti da Giuseppe ho scritto due risposte che di fatto sono altrettanti articoli... Speriamo che questo dialogo sia tanto interessante per chi lo legge quanto è stato per noi scriverlo.

Caro Alberto,

ho riletto con piacere recentemente le tue riflessioni  su “Verità relativa e verità assoluta” e sul possibile contributo che su tale tema può venire dalla cultura orientale (“Oriente e Occidente”).
In quei due scritti hai trattato degli argomenti che, come sai bene, sono per me di estremo interesse e che penso meritino di essere ripresi e sviluppati.

Tu affermi che la verità assoluta non è ottenibile tramite la ragione e tantomeno esprimibile dal linguaggio umano (e non posso non essere d’accordo con te su questo punto) e che di conseguenza “la verità assoluta si dovrà perseguire attraverso la sapienza spirituale (prajna), da raggiungersi con mezzi non linguistici e quindi non propri dell’intelletto, bensì di qualche altra facoltà spirituale”.

Sono d’accordo nella sostanza ma a mio parere sono opportune alcune precisazioni sulla terminologia impiegata per evitare possibili fraintendimenti. Quando si parla di conoscenza e di verità si sottindende sempre un dialogo, un interlocutore, un‘esposizione verbale: la verità oggettiva è a mio parere inevitabilmente intersoggettiva. Appare quindi come un’aporia la tua affermazione che la “conoscenza più alta è di tipo non verbale, non discorsivo”: mi sembra più appropriato usare, nel caso del pensiero orientale, il termine esperienza invece che il termine conoscenza. Altrettanto quando dici che “la verità assoluta è irraggiungibile, se non attraverso un cammino spirituale individuale” potrebbe essere più corretto parlare di certezza più che di verità assoluta, ove il termine certezza richiama più direttamente una interiore e soggettiva disposizione d’animo di fronte ad una convinzione piuttosto che il raggiungimento di una verità oggettiva/intersoggettiva.
Mi sembra di conseguenza inesatto concludere che “le esperienze meditative dei mistici orientali … costituiscono un metodo alternativo di conoscenza, riferito alla sfera non discorsiva” o che “possiamo riconoscere che esistono diverse vie verso la conoscenza”.

Sull’esperienza mistica avevo riflettuto tempo fa per cercare di chiarirmi le idee su un tema tanto appassionante quanto sfuggente e difficile da comprendere; ti allego quanto allora mi ero annotato sull’argomento con lo scopo sia di dare un contributo in merito sia di suscitare un  più ampio dibattito critico.

I tuoi scritti sulla verità relativa ed assoluta affrontano anche il tema buddhista del tathata che tu traduci con “esperienza elementare non elaborata dall’intelletto”; e commenti in merito: “Ciascuno di noi soggettivamente la sperimenta, non la produce; essa è anteriore al soggetto ed all’oggetto … L’elaborazione compiuta dall’intelletto, poi, crea la realtà oggettiva, che va intesa in generale come costruzione intellettuale, come discorso/razionalizzazione (logos)”. Sono perfettamente d’accordo con questa analisi dell’esperienza elementare, tema che è stato oggetto per me di ripetute riflessioni. Ti allego anche su questo argomento alcuni appunti che partendo dall’esperienza elementare esaminano i concetti di conoscenza, di realtà, di intuizione, di certezza, concetti che sono indirettamente collegati al tema dell’esperienza mistica.

Giuseppe Aschieri, 25 marzo 2002
 

Risposta alla lettera

Caro Giuseppe,
le questioni terminologiche sono sempre spinose, specialmente quando si mescolano Oriente e Occidente. I termini che ho usato parlando di concetti provenienti dalle filosofie orientali sono quelli che si trovano sui testi italiani che trattano quegli argomenti. Esiste una terminologia filosofica italiana per le filosofie orientali e, nei limiti delle mie conoscenze, cerco di attenermi a quella, pur sapendo che a volte può essere fuorviante per chi non ha familiarità con i concetti originali. Le parole non hanno semplicemente un significato "da dizionario", ma portano con sé riferimenti ramificati ad un intero mondo culturale. Per questo motivo io a volte inserisco parole in lingua originale: non si tratta di fare sfoggio di erudizione o di essere pedante, ma di mantenere il riferimento, dato che i concetti non sono perfettamente traducibili. Per questo stesso motivo ritengo che si debba in qualche misura accedere ai testi originali, per evitare mediazioni che possono portare molto lontano dal significato originario. Naturalmente per spiegarmi farò ricorso proprio ai dizionari.

Quando parlo di conoscenza non discorsiva, intendo ad esempio conoscenza intuitiva. E voglio proprio dire conoscenza, non esperienza. Secondo il (mitico) Devoto-Oli conoscenza vuol dire, nell'accezione che ci interessa, "nozione, acquisizione sul piano logico o dell'esperienza". La conoscenza di cui parlo è l'acquisizione che risulta dall'esperienza intuitiva, non l'esperienza stessa. La conoscenza, di per sé, è un fatto individuale: avendo fatto un ragionamento, avendo udito un discorso o avuto un'esperienza, ho acquisito una nozione su qualcosa. Anche la conoscenza matematica ha un momento di fissazione intuitiva: quando leggiamo una dimostrazione, ad un certo punto si accende la lampadina e diciamo: ho capito! Pensa anche all'eureka! di Archimede nella vasca da bagno. Quindi parlo proprio di conoscenza, intesa come acquisizione di una nozione permanente, non dell'atto dell'acquisizione. La maggior parte della nostra conoscenza, in realtà, non è verbale: dalla conoscenza dei volti delle persone alla conoscenza pratica del come fare le cose. La conoscenza intuitiva del piano spirituale si avvicina in qualche modo alla conoscenza pratica, come l'andare in bicicletta o il dipingere. La conoscenza non si trasmette infatti con le parole soltanto, ma anche con l'esempio e la guida, di cui le parole fanno comunque parte. Prova a non pensare al guru barbuto seduto a gambe incrociate in una stanza piena di fumo d'incenso, ma ad un istruttore di scherma o di tiro con l'arco (riferimenti zen).

Il termine verità assoluta, come si spiega anche nel testo a cui fai riferimento, viene dalla filosofia buddista ed è la traduzione di paramartha satya, si potrebbe tradurre parola per parola "verità della cosa ultima" (parama=ultimo, estremo; artha=cosa; satya=verità). Indica proprio il "come stanno le cose" al di là di qualsiasi apparenza e di qualsiasi punto di vista limitato. Non si tratta soltanto di essere certi di qualcosa, ma di sapere davvero com'è, conoscere la cosa in sé, il noumeno kantiano. La via per raggiungerla può essere individuale, ma la verità di cui si parla, in quanto assoluta, ultima, è una sola. Lasciando da parte l'Oriente, Kant indica un altro modo di giungere ai concetti della metafisica senza poter seguire il puro ragionamento teoretico: infatti costruisce i postulati sull'immortalità e su Dio tramite la ragion pratica, dopo aver dimostrato che la ragion pura non li può dimostrare. Le verità metafisiche contenute nei postulati della ragion pratica sono  soggettive, in quanto si raggiungono tramite la norma dell'azione pratica, cionondimeno riguardano l'assoluto e sono valide universalmente. Sto studiando le relazioni tra filosofia kantiana e filosofia buddista, spero un giorno di poter dire qualcosa di significativo.

Alberto Cavallo, 1° maggio 2002

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Il misticismo (di Giuseppe Aschieri)

 Anche se molto varia e complessa l'esperienza mistica può essere pensata come caratterizzata da due momenti distinti.


Sono convinto che bagliori di esperienze mistiche siano presenti in numerosi situazioni del vissuto quotidiano in una forma "subliminale" dando ad esse quel colore, quella qualità che le rendono degne di essere vissute. Alcune di queste, se più intense, vengono avvertite e ricordate: si pensi per esempio alla intima esaltazione che si prova per una scoperta, oppure al senso di rapimento e di perdita della propria identità nell'innamoramento.

Quanto sopra è una approssimativa e necessariamente parziale descrizione dell'esperienza mistica; se comunque è difficile descrivere in maniera adeguata una tale esperienza, che già viene descritta da coloro che l'hanno provata come ineffabile, non è certamente più semplice interpretare questo speciale stato di coscienza.
L'interpretazione del fenomeno dell'esperienza mistica presenta comunque problematiche simili a quelle dello studio di altri stati di coscienza, per esempio di quello ipnotico oppure di quello onirico. Per quest'ultimo, per esempio, oggetto di analisi è: (1) quello che viene sognato, (2) che valore deve darsi al contenuto dei sogni, (3) che cosa caratterizza da un punto di vista psicologico e fisiologico lo stato onirico.
In maniera analoga ci si può muovere per la comprensione del misticismo e cioè: (1) cosa esperisce il soggetto durante il rapimento mistico , (2) quale contenuto deve essere attribuito alle visioni mistiche, (3) quali sono gli aspetti psicologici e fisiologici dell'esperienza mistica. Se al primo punto ho già tentato di dare una risposta approssimativa sopra e se per il terzo è opportuno riferirsi agli studi specialistici relativi, per il secondo si possono fare alcune considerazioni di principio che, con l'aiuto di alcune citazioni, espongo di seguito.
Dewey, confutando l'idea che l'esperienza mistica possa rappresentare una forma speciale di accesso a verità altrimenti inaccessibili, osserva: "L'idea che questa esperienza sia , di sua propria natura, un'apprensione veridica della diretta presenza di Dio, non si fonda tanto su un esame dei fatti quanto sull'inserimento, in seno alla loro interpretazione, di una concezione già preformata al di fuori di essi. [...] La storia ci presenta molti tipi di esperienza mistica, e ciascuno di questi tipi è spiegato dalla situazione del suo tempo, cioè dalle idee dominanti nella cultura e nell'ambiente in cui si manifestano quei fenomeni" (da Una fede comune La Nuova Italia editrice, 1959, pagg. 38,39).
"Il presumere - dice Dewey più avanti, pag. 41 - che il rifiuto di una speciale interpretazione del loro [delle esperienze mistiche] contenuto oggettivo provi che gli autori di tale rifiuto non hanno l'esperienza in questione, perché se l'avessero sarebbero egualmente persuasi che la sua fonte oggettiva è nella presenza di Dio, non ha alcun fondamento nei fatti. Come ogni altro fenomeno empirico, il presentarsi dello stato che vien chiamato mistico è semplicemente un'occasione per indagare il modo in cui esso si è prodotto. Il convertire l'esperienza stessa in una conoscenza immediata della sua causa non è più giustificato, in questo caso, di quanto sia quando si ha esperienza di un fulmine, o di qualsiasi evento naturale". Le osservazioni di Dewey sopra riportate (che comunque si riferiscono ad una particolare interpretazione dell'esperienza mistica, quella di rivelazione della divinità, tralasciando le esperienze mistiche della spiritualità orientale, in particolare quella buddista) risultano più scontate se riferite all'esperienza onirica: è evidente infatti a tutti oggi che il rifiutare un contenuto conoscitivo ai sogni non vuol dire non avere avuto esperienza di sognare, anche se nel passato era comune pensare che il sogno fosse il canale privilegiato di dei ed angeli per trasmettere i loro messaggi. Come inoltre il rifiuto di un contenuto conoscitivo nei sogni non riduce minimamente la validità del sognare, altrettanto il rifiutare un contenuto oggettivo alle esperienze mistiche non sminuisce assolutamente il loro valore. Aggiungerei addirittura che come è normale che una persona sana abbia la facoltà di sognare altrettanto è normale ed auspicabile che sia in grado di arricchire il proprio vissuto con emozioni mistiche.
I maggiori mistici orientali e occidentali da Buddha a Meister Eckhart non sono caduti comunque nella tentazione di dare contenuto oggettivo alle esperienze mistiche ed hanno elaborato il concetto di Nirvana, del Nulla o nel caso dei mistici ebrei medioevali la teologia negativa. Hanno così evitato le giuste critiche sopra riportate di Dewey sulla convinzione che Dio sia la fonte oggettiva dell'esperienza mistica. In proposito anche Popper ha rivelato la contraddizione in cui cade un certo misticismo: "E' noto - dice - che la terminologia del misticismo, l'unione mistica, l'intuizione mistica della bellezza, l'amore mistico, sono stati in tutti i tempi presi a prestito dal mondo delle relazioni fra uomini singoli e specialmente dell'esperienza dell'amore sessuale. E non c'è dubbio che questo sentimento è trasferito dal misticismo agli universali astratti, alle essenze, alle Forme o Idee. ... Ma questo irrazionalismo olistico e universalistico è fuori strada. Il <mondo> e il <tutto> e la <natura> sono tutte astrazioni e prodotti della nostra ragione. (Ciò vale anche a differenziare il filosofo mistico dall'artista che non razionalizza, non usa astrazioni, ma crea, nella sua immaginazione, individui concreti ed esperienze uniche). Insomma, il misticismo tenta di razionalizzare l'irrazionale.."
Tornando ad Eckhard, Sergio Givone (in Storia del Nulla, Laterza,1995, pag. 57) cita queste sue parole: "... chi parla di Dio con qualsiasi comparazione, parla impropriamente di Lui. Ma chi parla di Dio tramite il nulla, parla propriamente di Lui. Se l'anima giunge nell'unità, e là perviene ad un puro annientamento di se stessa, là essa trova Dio come in un nulla" e "Dio fu generato dal nulla".
E' comprensibile come mai il misticismo più elevato coerentemente parli di visione ineffabile e che il mondo raggiunto nell'estasi mistica è il Nulla. Il percorso mistico infatti è diretto verso l'interiorità, la soggettività, dove il punto di arrivo deve essere necessariamente libero da ogni percezione di oggettività, dove cioè il contenuto oggettivo è stato anNULLAto dando al contempo una pienezza di emozione interiore. Ed è proprio in questa pienezza che vanno ricercate le radici più profonde che danno contenuto alle azioni e al vissuto quotidiano. E' anche comprensibile perchè il mistico, che in ogni caso non può essere accusato di irrazionalità, denuncia come idolatrico ogni tentativo di dare contenuti oggettivi, cioè esterni alla propria soggettività, alle esperienze mistiche.
Detto in altre parole oserei dire che il mistico vede il Nulla nell'esistente mentre vede la Pienezza nelle possibilità della propria interiorità. Ecco perché, fa notare in proposito Bertrand Russell, il mistico in maniera apparentemente contradditoria tende ad avvertire illusorie le distinzioni di bene/male nel mondo ma al tempo stesso la visione mistica lo porta a vedere il mondo intero degno di amore e di adorazione. La rivelazione dell'esperienza mistica che il mondo sia appunto degno di amore e di ammirazione nasce non da una descrizione dell'esistente ma dal mondo del possibile; "L'emozione mistica rivela - dice Russell in Misticismo e Logica, Longanesi, 1970, pag. 27 - una possibilità della natura umana: la possibilità di una vita più nobile, più felice e più libera di quella in qualsiasi altro modo raggiungibile. Ma non rivela niente circa il non-umano o circa la natura dell'universo.".

Nell'esperienza mistica a mio parere l'individuo s'immerge nella prorpia interiorità e soggettività alla ricerca di un principio ordinatore del proprio vissuto, che eviti il disorientamento dando unità al proprio mondo interiore (il lebenswelt di Husserl).  Il misticismo cioè cerca di arrivare al motore della propria esistenza, all'essenza e all'origine del proprio essere. Questa ricerca comunque non avviene a livello conoscitivo ma a livello esperienziale e l'ordine raggiunto non riguarda la visione filosofica di sé e del mondo ma il mondo interiore dei propri sentimenti (solo nel tentativo di esprimere l'ineffabile raggiungimento del principio ordinatore il mistico parla di Dio o del Nulla). Il misticismo svolge l'indispensabile compito di combattere la frammentazione del proprio vissuto non solo nel momento esaltante dell'estasi mistica ma anche nella vita quotidiana caricando di contenuti simbolici azioni e oggetti (i simboli in fondo sono dei principi ordinatori della realtà e per questo vengono avvertiti come sacri). L'esperienza mistica e quella onirica, per riprendere il parallelo proposto all'inizio di questa analisi, sembrano svolgere entrambe proprio quell'indispensabile ruolo di mettere ordine al proprio vissuto (anche se con modalità che sono, direi, all'estremo opposto l'una dall'altra).

Riporto di seguito alcune citazioni tratte da una ricca e documentata opera della scrittrice K. Armstrong.
L'esperienza mistica è "l'esperienza soggettiva di un viaggio interiore, - dice K. Armstrong in Storia di Dio, Marsilio, Venezia, 1995 - non la percezione di un fatto oggettivo, fuori dal sé; è resa possibile da quella parte della mente che crea immagini - chiamata appunto immaginazione - non dalla facoltà del pensiero logico e razionale; ed è qualcosa che il mistico provoca deliberatamente." (pag. 235).
Più avanti (pag. 424) osserva anche che "per molto tempo i mistici hanno ripetuto che Dio non è semplicemente un altro essere, che egli in realtà non esiste e che è meglio chiamarlo Nulla. Questo Dio (il Dio dei mistici) è congeniale allo spirito ateo della nostra società laica, che non crede più in immagini inadeguate dell'assoluto. Invece di concepire Dio come un fatto obiettivo dimostrabile scientificamente, i mistici hanno sostenuto che egli è un'esperienza soggettiva e misteriosa, vissuta in fondo al proprio essere; questo Dio cui ci si avvicina per mezzo dell'immaginazione, può essere considerato come un'espressione artistica, simile agli altri simboli artistici che esprimono l'ineffabile mistero della vita, la sua bellezza e il suo valore. Per esprimere questa realtà, irriducibile ai concetti, i mistici hanno impiegato la musica, la danza, la poesia, la narrativa, la pittura, la scultura e l'architettura."

Giuseppe Aschieri
 

Annotazioni sul misticismo (di Alberto Cavallo)

La mia prima osservazione al testo di Giuseppe sul misticismo è che contesto la parola (facendo seguito all'ultimo paragrafo di Oriente e Occidente). Secondo il dizionario di filosofia dell'Abbagnano, misticismo è "ogni dottrina che ammetta una comunicazione diretta tra l'uomo e Dio". Ritengo, sostenuto dal medesimo Abbagnano, che si possa parlare di misticismo soltanto per il neoplatonismo e per concezioni religiose in ambito cristiano, ebraico e mussulmano, salvo notare l'affinità con correnti induiste. Nei testi che trattano di filosofia indiana e cinese la parola "misticismo" non è usata. Nel seguito cercherò di dare esempi di conoscenza non razionale in ambito filosofico, mostrando come il termine misticismo non sia adeguato a descrivere tutte le forme di conoscenza filosofica non discorsiva. In particolare, i due momenti indicati da Aschieri non descrivono adeguatamente tutto ciò che poi comprende nell'ambito del misticismo.

Bisogna prima di tutto distinguere tra conoscenza non discorsiva e metodi per conseguirla; tra i metodi, ve ne sono alcuni che prevedono tecniche di concentrazione e di meditazione. Facendo anche riferimento alla mia risposta alla lettera, ripeto che si tratta effettivamente di conoscenza. Conoscenza è nozione, acquisizione sul piano logico o dell'esperienza. Quando diciamo che conosciamo una persona, non intendiamo che ne abbiamo fatto uno studio biologico e psicologico, ma che abbiamo avuto a che fare con essa e che ne abbiamo nozione sulla base delle nostre facoltà conoscitive umane. Il presupposto del testo di Aschieri è che sia conoscenza soltanto quella di tipo scientifico oppure filosofico "occidentale". Eppure quasi tutta la conoscenza che ha un qualsiasi essere umano normale è di altro tipo: riguarda, ad esempio, il saper svolgere un certo compito, il sapersi comportare in certe situazioni e così via. Anche sui concetti più fondamentali l'individuo medio ha conoscenza non verbale: proviamo a chiedere ad una pesona qualsiasi, ad esempio, di dare una definizione del tempo o dello spazio.

Per chiarire i concetti, prendo come esempio il buddismo. Non posso qui spiegare una delle correnti filosofiche e religiose più importanti dell'umanità in poche parole, mi limiterò a fare alcune osservazioni. Per chi non conosce il buddismo, posso soltanto suggerire alcuni testi.

Non dispongo dello spazio, del tempo e della competenza per essere esauriente, credo tuttavia che sia chiaro che il buddismo è molto diverso dal quadro presentato da Giuseppe per descrivere il misticismo: la sequenza buddista parte dal momento empirico, prosegue con l'analisi razionale per giungere all'impiego di tecniche meditative. Attraverso queste tecniche si intende accrescere la propria consapevolezza con lo scopo di raggiungere la bodhi. Questo sostantivo sanscrito viene solitamente tradotto con illuminazione, in base alla convenzione terminologica in vigore, ma il termine può essere fuorviante. Perché bodhi vuol dire risveglio, consapevolezza, conoscenza. Si tratta di una condizione permanente, non di un'estasi che si raggiunge durante un'esperienza mistica. Buddha vuol dire (dal dizionario di sanscrito di Tiziana Pontillo, ed.Vallardi) 1. risvegliato 2. sveglio 3. conscio 4. intelligente 5. saggio 6. conosciuto. Un Buddha non è un essere perduto nell'unione mistica coll'infinito, ma al contrario un essere che si è svegliato dal sonno in cui tutti noi ci troviamo ed è diventato pienamente consapevole. Illuminazione, illuminato fa pensare appunto a qualche entità che dall'esterno infonde la luce della conoscenza. Ma la parola originale ed il concetto che connota sono quelli di risveglio, presa di coscienza. Non si tratta del contatto diretto con un Dio o con qualche realtà alternativa, ma dell'acquisizione di un nuovo atteggiamento nei confronti dell'esistenza. Le cosiddette divinità buddiste sono figure ideali, simboliche, utilizzabili come supporti meditativi, ma non hanno sostanzialità metafisica, sono un mezzo e non un fine della pratica meditativa.

Il buddismo afferma che i fenomeni sono vuoti; a volte i buddisti parlano del Vuoto come entità, ma è sostanzialmente un artificio retorico. Il Tutto, la Natura, il Dio dei monoteisti non compaiono nel buddismo. Nel mahayana c'è la dottrina dei tre corpi e il concetto del dharmakaya, ma non sono punti dottrinali ed hanno una funzione esplicativa, come le parabole cristiane. La vacuità consiste nel fatto che le cose non hanno realtà indipendente e persistente, sono soltanto agglomerati temporanei cui la mente umana attribuisce nomi, e questo vale anche per il Mondo, il Tutto eccetera. Il vero punto di fede consiste nel credere che si possa ottenere la bodhi e con questa entrare nel nirvana. Il nirvana non è un'entità, ma il nome che si dà allo stato che corrisponde alla cessazione dei legami che producono la sofferenza. La parola nirvana vuol dire estinzione, cessazione. Un'immagine usata spesso è quella della candela che si spegne con un soffio.

Certo su questo si sono costruiti edifici immensi di religiosità popolare, smarrendone spesso il significato originale. Le divinità considerate dottrinalmente come simboliche sono oggetto di un vero e proprio culto popolare, che agli occhi di un occidentale non differisce, ad esempio, dal culto cattolico della Madonna e dei santi. Del resto, un orientale che assista alle manifestazioni di religiosità popolare cattolica può pensare che i santi siano divinità a tutti gli effetti, paragonabili agli dei dell'induismo. E' chiaro che qui ci riferiamo all'aspetto autentico della dottrina, non alle incrostazioni rituali di cui è stata ricoperta nei secoli. Né alle esperienze di occidentali, ce ne sono molti, che praticano meditazione senza conoscerne le basi filosofiche, guidati da maestri non sempre autentici e orientati al bene del prossimo. Le tecniche meditative sono potenti e possono essere usate male, come tutte le tecniche. Esse portano a vari tipi di stati mentali, non ad una generica esperienza mistica; per questo devono essere praticate con cautela e con attenzione allo scopo che si persegue.

Altre scuole di pensiero dell'Oriente sono più vicine al concetto occidentale di misticismo. La scuola vedanta dell'ortodossia induista sottolinea fortemente la natura illusoria della percezione e sostiene l'identità dell'anima individuale con il Brahman, unica realtà. In questo si spinge oltre il misticismo cristiano, che cerca la comunicazione tra uomo e Dio ma non sostiene la coincidenza a priori dell'anima umana con la divinità. Il taoismo religioso (da non confondere col taoismo filosofico, di cui parlerò più avanti) è ricco di aspetti rituali e magici molto cari agli esponenti della new age. Spesso gli stessi (sedicenti) maestri orientali che vengono a proporsi a noi ignari occidentali frammischiano più o meno consapevolmente elementi di varia provenienza, contribuendo a generare una straordinaria confusione. Molti fra quegli stessi filosofi occidentali che hanno cercato di stabilire un collegamento con l'Oriente sono caduti in errori ed incomprensioni, dovuti alla confusione tra filosofie, sette religiose, culti popolari e trucchi ciarlataneschi, riportati da resoconti di seconda e terza mano o anche da testimonianze dirette, prive però del sostegno di una conoscenza di base, che consentisse di interpretare ciò che si vedeva.

Tornando al concetto di conoscenza non discorsiva, vorrei sottolineare che quando si afferma che una certa conoscenza non è esprimibile a parole, si intende veramente questo. Dovendo usare le parole per descriverla, si fa appello al proprio contesto culturale, pur avendo ben presente che si danno accenni, esempi, parabole, non si descrive l'indescrivibile. Ripeto, non è un mistero: non si può imparare ad andare in bicicletta soltanto ascoltando una lezione o leggendo un libro. Qui stiamo parlando di un percorso di crescita spirituale della persona, e stiamo dicendo che non si può diventare sapienti leggendo un manuale di sapienza o studiando qualche formula. E la filosofia è amore della sapienza, cioè ricerca della sapienza (sophia) e non soltanto della scienza (episteme).

Ritengo necessarie a questo punto alcune note sulla posizione di Popper. E' singolare che, evidentemente sulla base di Kant, ci dica che il mondo, il tutto e la natura sono astrazioni della ragione umana, per poi tacciare di irrazionalismo i mistici. Appunto il fatto che il mondo oggettivo è in realtà un prodotto della ragione umana applicata all'esperienza è il punto di partenza di parecchie filosofie liquidate come "mistiche". Ma è anche il punto fondamentale della Critica della ragion pura. Chi sostiene che esista una conoscenza superiore non razionale non intende, con questo, rifiutare la ragione diventando irrazionalista. Abbiamo visto come il buddismo abbia invece una forte componente razionalistica.

Per chiarire meglio il rapporto con le entità della ragione, ci serviamo di un'altra scuola filosofica. Nel taoismo (filosofico) si dice che il Tao non ha nome, Tao è un appellativo come un altro(2).
Al capitolo 1 del Tao Te Ching si legge:
"Senza nome è il principio del Cielo e della Terra
Quando ha nome è la madre delle diecimila creature".
Si vuol dire che l'oggettività delle cose del mondo nasce dalla razionalizzazione, il dare nomi, mentre il principio universale è anteriore alla ragione, perciò non ha nome. A differenza del buddismo, il taoismo filosofico si pronuncia sul principio della realtà, negando però che se ne possa parlare in modo ordinario. Sicuramente è una concezione che richiede l'uso dell'intuizione oltre che della ragione per comprenderla. Non sono richiesti però stati mentali particolari. E si chiarisce molto bene che non si sta parlando del Tutto, del Mondo o concetti simili, si sta invece dicendo che il fondamento della realtà precede la conoscenza di tipo discorsivo (i nomi). L'Uno, il Tao, o comunque si voglia chiamare ciò che non ha nome, è alla base e viene prima del Cielo e della Terra (il Mondo 1 di Popper) e delle diecimila creature (l'insieme degli oggetti del mondo fenomenico).

Popper accusa i mistici di voler razionalizzare l'irrazionale. No, cercano di spiegare a parole ciò che non è direttamente esprimibile. Il tipo di discorso che Popper ed altri razionalisti occidentali criticano ha lo scopo di indurre l'interlocutore a generare in sé stesso la conoscenza, non essendo possibile trasmetterla compiutamente a parole, quindi contiene spesso contraddizioni logiche. Non è, quindi, da prendere alla lettera, le contraddizioni che contiene sono volute ed hanno lo scopo di suscitare la reazione dell'ascoltatore, pensiamo ad esempio ai koan dello zen: problemi illogici, deliberatamente resi assurdi, per indurre l'allievo ad utilizzare in modo nuovo le sue capacità intuitive.

I logicisti, i razionalisti puri sono invece contraddittori, perché fondano tutto sulla ragione discorsiva, che non è autonoma. E' stato dimostrato (teorema di Gödel) che è impossibile costruire una teoria logica che sia abbastanza potente da consentire almeno la costruzione dell'aritmetica e che sia coerente e completa, cioè priva di contraddizioni e tale che ogni proposizione vera sia anche dimostrabile. Per la precisione, Gödel ha dimostrato che esistono verità matematiche non dimostrabili e che nel tentativo di renderle dimostrabili si introducono contraddizioni. In realtà noi abbiamo nozione della verità della matematica per intuizione diretta. E la matematica è una via d'accesso privilegiata alla conoscenza intuitiva.

Nella sua dottrina della conoscenza, Platone distingue tra diànoia, conoscenza di tipo argomentativo-dimostrativo, matematico, e nòesis, conoscenza filosofica o dialettica. La conoscenza di tipo matematico fa uso di ipotesi (postulati) e da queste deduce teoremi; la conoscenza di tipo dialettico procede "dai postulati... per arrivare a ciò che non è più solo un postulato, al Principio di tutto (tou pantòs arché)" (Repubblica, VI, 511B). Ricordo che comunque Platone riteneva indispensabile la diànoia per arrivare alla nòesis: per lui si doveva studiare la matematica prima di affrontare la filosofia, ma quest'ultima doveva procedere oltre. Nella lettera VII, 341C, Platone dice che l'argomento fondamentale della sua indagine "non è in alcun modo enunciabile come gli altri concetti" e che lo si apprende quando, in seguito a lunga frequentazione col suo oggetto, "compare nell'anima come una luce che si accende da una scintilla di fuoco". Certo non si tratta di "unione mistica con l'Uno", ma di intuizione diretta, sempre comunque una forma di conoscenza non discorsiva (non dianoetica). Platone non volle mai mettere per iscritto questo tipo di insegnamento, perché in tale forma rischia di essere frainteso, banalizzato: la sua trasmissione richiede "domande e risposte in discussioni benevole e senza astio". Non si tratta infatti di dimostrare teoremi, ma di suscitare nell'altro l'acquisizione intuitiva del concetto, attraverso il dialogo. E' pur sempre possibile mettere questo tipo di conoscenza per iscritto, ma la maggior parte dei lettori non capisce o fraintende, e può illudersi di aver capito pur essendo del tutto fuori strada, oppure formulare critiche errate per incomprensione. Per questo Platone scelse di non farlo.

Tornando alla matematica, osserviamo che il suo studio porta in contatto da un lato col rigore del ragionamento, dall'altro con un mondo di enti astratti che sono in qualche modo immagine dell'assoluto. La matematica, infatti, è un prodotto dell'intelletto umano, eppure gli enti matematici non sembrano soltanto strumenti prodotti dall'uomo, ma paiono assumere vita propria in un mondo non materiale. Molti matematici anche oggi sostengono l'esistenza assoluta degli enti trattati dalla loro scienza, e pertanto sono detti platonici. Poniamoci qualche domanda: da dove nascono le infinite e irregolari cifre di pi greco? Dalla mente umana? E per un essere non umano, sarebbero diverse? E quando le calcoliamo col computer? Carl Sagan, il grande scienziato recentemente scomparso, nel suo romanzo Contact parla della ricerca di Dio nelle cifre di pi greco. Platone direbbe che certo, calcolando pi greco, ci accostiamo alla conoscenza del mondo reale, il mondo delle idee. Henri Poincaré sottolineava la natura particolare del principio di induzione matematica, quello per cui se sono vere le due affermazioni:

  1. se P è vero per n allora P è vero per n+1
  2. P è vero per zero
allora P è vero per tutti gli infiniti numeri naturali. Come facciamo a saperlo? E' un postulato dell'aritmetica a cui tutti crediamo, ma perché? Non potremo mai costruire tutti gli infiniti esempi, anche se sappiamo come fare a livello procedurale. Ci fermiamo e crediamo: un esempio di conoscenza non discorsiva! Le verità matematiche non scaturiscono semplicemente dalle dimostrazioni, perché il mondo delle dimostrazioni non sorregge se stesso, come ha dimostrato Gödel. Esiste un passo intuitivo fondamentale da fare. E se non c'è dubbio che la matematica nasca dalla mente umana, dobbiamo affrontare la questione che gli enti matematici hanno qualche tipo di esistenza in sé. Karl Popper parlava del mondo 3, il mondo delle entità immateriali prodotte dall'uomo. E aveva tanta fede in quel mondo da utilizzarlo, con Eccles, per sostenere l'esistenza dell'anima. Quindi Popper seguiva un percorso analogo a quelli di Platone e di Buddha. Senza rendersene conto faceva parte anch'egli della schiera allargata, impropriamente definibile dei mistici.

A proposito di interiorità contrapposta a mondo esterno, c'è parecchio da dire. Abbiamo già affrontato il concetto che il mondo degli oggetti non è qualcosa che si pone di fronte al soggetto, ma è il prodotto dell'applicazione di forme proprie del soggetto all'esperienza grezza, in termini kantiani applicazione delle forme trascendentali all'intuizione empirica. Anche Popper, come abbiamo visto, sostiene questo punto di vista; il buddismo ha una bella teoria al proposito, che non espongo qui, sostanzialmente in accordo. Ora, l'io empirico è parte del mondo dell'esperienza, cosa su cui concordano tutte le correnti citate. Non c'è nessun ente esterno che si possa contrapporre all'interiorità, perché interiorità ed esteriorità sono parti del mondo fenomenico. E' nozione comune della filosofia indiana che i sensi sono sei: oltre ai cinque esterni, c'è il senso interno (manas). Quando si dice che il mondo dei fenomeni è impermanente, vuoto, illusorio e così via, l'io empirico è incluso. Il buddismo nega recisamente la realtà (intesa come natura sostanziale) di qualsiasi cosa, compreso l'io e l'individuo; indica poi la via per cambiare il proprio atteggiamento verso il mondo (sé stessi inclusi); potremmo ardire di affermare, in modo impreciso e quasi provocatorio, che indica come modificare le forme trascendentali, così da correggere la percezione della realtà. Stiamo parlando di agire sulle forme del percipiente anziché sull'oggetto percepito, non su un'esperienza interiore contrapposta a quella esteriore.

Per descrivere la posizione di Kant, spesso si paragonano le forme trascendentali ad occhiali colorati attraverso cui vediamo il mondo (e noi stessi). I mistici sono una specie di oculisti, che cercano di darci occhiali migliori se non di toglierceli del tutto. Il mondo fenomenico è dentro di noi, non fuori. Il riordinamento a cui si giunge riguarda proprio la concezione filosofica del mondo. Bodhi è risveglio: noi che non siamo dei buddha (non siamo svegli, stiamo dormendo) viviamo come sognando, il buddismo cerca di portarci nel mondo degli svegli (i buddha), che in quanto tali vedono il mondo reale e non i propri sogni. Russell dice che il misticismo non può darci conoscenza della natura dell'universo. Si sbaglia totalmente: qui si parla proprio della natura dell'universo. Certo meditando non si impara qual è la percentuale di idrogeno sul pianeta Giove. Non si acquisiscono insomma dati scientifici. Ma si capisce che cos'è il mondo, compreso il pianeta Giove e l'idrogeno: voglio dire che si acquisisce autentica consapevolezza della natura delle cose. Il realismo convenzionale dell'occidente, ad esempio, è incompatibile con la meccanica quantistica: le particelle che compongono gli atomi sono simultaneamente onda e particella, possono andare dal punto A al punto B passando simultaneamente per due percorsi diversi, non se ne conoscono mai con precisione simultaneamente la posizione e la velocità. I parametri di una particella hanno un valore solo nell'istante in cui sono misurati, al di fuori dell'esperimento non ci sono valori oggettivi. In meccanica quantistica, il ramo della scienza con la più alta precisione nell'accordo tra teoria ed esperimento, abbiamo metodi matematici che prevedono statisticamente i risultati degli esperimenti, non la descrizione di una realtà compatibile con la categoria filosofica di sostanza. Le particelle sono concetti della nostra mente, chi ha familiarità con la filosofia indiana e cinese non ha difficoltà a capirlo. E intendo proprio capirlo intimamente: si può enunciare a parole ciò che ho descritto, senza rendersi conto del suo significato. Il diagramma di Feynman completo di una qualsiasi particella secondo me è un magnifico esempio della dottrina buddista del mondo fenomenico: fa vedere che il propagarsi di una particella si compone di infinite interazioni con particelle virtuali - non c'è nessuna continuità sostanziale!

Tornando alla meditazione, essa è solo un mezzo per concentrarsi e acquisire consapevolezza di che cosa siamo noi e il mondo - ad esempio un brulichio di particelle/onde che compaiono e svaniscono infinite volte, o se vogliamo l'eterno Tao senza nome. Si tratta di interiorizzare i concetti, farli entrare nella nostra visione del mondo - metterci occhiali migliori.

Quanto al vedere il mondo con amore ed adorazione, se ne può parlare in due modi. Intanto si può dire che si può essere religiosi o no. Chi è religioso, che sia un filosofo o un fedele di scarsa cultura, sa esprimere adorazione. Si può essere religiosi e atei insieme, nel senso che si può, ad esempio, avere rispetto sacrale per il mondo e non credere in un Dio creatore. Russell non apprezzava questo atteggiamento, era un irreligioso assoluto. Coerentemente con quanto abbiamo discusso sopra, era un logicista: credeva che fosse possibile fondare tutto sulla logica, e produsse, in collaborazione con Alfred North Whitehead, i monumentali Principia Mathematica, in cui cercarono di dimostrare che tutta la matematica si può dedurre dalla logica. Il loro progetto, con tutta la corrente logicista, naufragò definitivamente ad opera appunto di Kurt Gödel. Whitehead finì per sviluppare una propria visione filosofica, secondo cui "la materia è durata fisica .. il processo dell'ereditare continuamente una certa identità di carattere trasmessa attraverso un percorso storico di eventi". Insomma, molto vicino al buddismo.

D'altra parte, chi si incammina sulla strada della filo-sofia (amore della sapienza) e riesce almeno in qualche misura ad interiorizzarla, magari con la meditazione, non può non assumere un atteggiamento di serena benevolenza e quieta adorazione per il mondo intero. Avvicinandosi così all'atteggiamento religioso.

La Armstrong dice parecchie cose giuste, poi cade un po' in difetto parlando di Dio come espressione artistica. Occorre precisare: la conoscenza dell'assoluto si può anche trasmettere attraverso l'arte, perché si può usare la forma artistica per aiutare la concentrazione o trasmettere stati d'animo propizi allo sviluppo della consapevolezza. Ma l'arte è soltanto un mezzo di comunicazione tra esseri umani. Nessun mezzo, in realtà, trasmette conoscenza, la conoscenza si acquisisce individualmente grazie agli spunti che riceviamo attraverso tutti i mezzi che abbiamo a nostra disposizione. Anche Popper, quando parla di amore mistico, intuizione mistica della bellezza non coglie appieno il fatto che in tutti questi casi si tratta di esempi di vie, che vengono proposte per crescere spiritualmente. Si tratta di mezzi, adatti ad una persona piuttosto che all'altra, per migliorarsi, per cercare la sapienza. Sapienza non è soltanto conoscenza, è lo stato di chi ha conoscenza elaborata. Popper dice che tutti questi temi sono tratti dal rapporto tra individui. E' vero! Infatti siamo individui, esseri umani, partiamo dalla nostra umanità individuale! La filosofia riguarda prima di tutto gli esseri umani come persone. La spiritualità è appunto l'opposto della spersonalizzazione.

I fatti obiettivi dimostrabili scientificamente di cui parla la Armstrong non esistono, la scienza è un'altra cosa. La concezione di "dimostrabile scientificamente" sembra sottintendere che la scienza fornisca certezze, quando è vero il contrario: la scienza cerca una ragionevole approssimazione, ma per definizione non dà mai certezze. La scienza è la ricerca di conoscenza secondo il metodo galileiano, un ottimo metodo ma non valido per ogni cosa. La conoscenza scientifica in quanto tale non ci dice nulla sulla natura del mondo in generale, ci dà soltanto mezzi per prevedere certi fenomeni. Abbiamo visto come la meccanica quantistica consenta previsioni statistiche molto accurate dei risultati sperimentali, ma come essa stessa manchi di una interpretazione nel senso di fatti obiettivi. Anzi, in meccanica quantistica le particelle non hanno alcun parametro obiettivo: posizione e velocità di una particella per principio non si possono conoscere simultaneamente con precisione. Naturalmente i risultati della scienza si possono elaborare in filosofia, come stiamo facendo, Dio ci perdoni se esiste, ora. Le considerazioni sulla natura del mondo che nascono dall'analisi dei risultati scientifici fanno comunque parte della filosofia e non della scienza.

Concepire addirittura Dio come un fatto obiettivo è appunto l'errore compiuto dalle religioni occidentali, almeno nella loro veste ufficiale, come ho ampiamente spiegato in verità assoluta e verità relativa. D'altro canto, le concezioni (ad esempio) buddiste o taoiste sono assolutamente obiettive, intersoggettive, insegnabili. I metodi meditativi sono tecniche, si imparano se si desidera usarli, come si impara a tirare con l'arco o a fare esperimenti con le particelle. La conoscenza filosofica non discorsiva si può trasmettere in molti modi, anche con l'ausilio dell'arte. Ma non è arte, non si deve confondere il messaggio col mezzo. Acquisita ed interiorizzata è sophia, prajna, noesis: consapevolezza di ciò che non ha nome, e possiamo chiamare ad esempio Tao.

Alberto Cavallo

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Il vissuto esperienziale (di Giuseppe Aschieri)

La coscienza (nel senso datole da Husserl) potrebbe essere vista come la facoltà che percepisce le esperienze dirette di vita, dalle più semplici quali il gustare un bicchiere d'acqua fresca a quelle complesse quali il percepire una situazione di pericolo o il sentirsi innamorati. Alle esperienze dirette sono quasi sempre associate emozioni: riso, pianto, piacere, angoscia, ecc., emozioni che entrano in circolo e fanno un tutt'uno con le esperienze stesse. Le esperienze dirette ci mettono in contatto più che con la realtà con il vissuto; di esse non possiamo non avere completa fiducia pena il perdere ogni criterio di orientamento; Sequeri parla in proposito di coscienza credente mentre Gelhen osserva (in L'uomo al cap.36): "La vasta esperienza, irrazionale per principio, che non attinge la scientificità e non è controllabile direttamente, ha una sua verità: la certezza".

Le esperienze dirette vengono percepite, in maniera pre-categoriale, come forma e potrebbero quindi essere chiamate estetiche. La conoscenza comincia e si sviluppa con la riflessione sulle esperienze (che, dice Gelhen, sono irrazionali per costituzione). I risultati di una riflessione conoscitiva possono comunque poi rientrare nel circolo delle esperienze: in questo caso più che di conoscenza di una cosa se ne ha comprensione.

Psicologicamente ciò che comprendiamo mediante la diretta percezione esperienziale viene avvertito come essenza. Sulle nostre conoscenze grava sempre il dubbio, lo scetticismo; di ciò che esperiamo non possiamo invece avere dubbi: sono certezze da cui partire, sono verità, sono le basi su cui costruire le nostre conoscenze, sono l'essenza della vita.

La coscienza - secondo Husserl - è la sfera della posizione assoluta; un'esperienza vissuta non può non esistere, l'esperienza di un oggetto invece non ci garantisce della realtà dell'oggetto stesso.  Le esperienze vissute sono un fenomeno soggettivo. Il processo di conoscenza oggettiva, che avviene mediante un’elaborazione compiuta dall’intelletto, passa sempre e inevitabilmente attraverso le esperienze vissute e la loro fase soggettiva. Detto per inciso Cartesio per dare un fondamento al pensiero filosofico è andato proprio alla ricerca di un’esperienza vissuta, indubitabile e universalizzabile, trovandola nel celebre cogito ergo sum.
"A qualunque scuola filosofica si appartenga, è sufficiente sedersi su una stufa rovente - racconta R. M. Pirsig nel suo romanzo filosofico Lila - per verificare, senza alcun ricorso alla discussione intellettuale, che ci si trova in una condizione a basso livello qualitativo e che il valore della propria posizione è di segno negativo. Tale basso livello di qualità non è un'astrazione metafisica nebulosa o criptoreligiosa: è un'esperienza. Non un giudizio su un'esperienza, non una descrizione di un'esperienza: il valore è esso stesso esperienza. ... E' l'esperienza meno ambigua e più univoca che ci sia. In un secondo tempo si potrà passare a una descrizione di questo basso livello mediante l'emissione di alcune imprecazioni, ma il valore verrà sempre per primo, le imprecazioni per seconde. In assenza del basso valore, che è primario, non si daranno le imprecazioni, che sono secondarie. ... [Il valore] è percepito più direttamente, più immediatamente di qualunque sé o oggetto cui venga in seguito ascritto. E' più reale della stufa. Se la causa del basso livello qualitativo sia la stufa oppure qualcos'altro, ancora non lo sappiamo con certezza. Ma che la qualità sia scadente, questo è assolutamente certo. E' la realtà empirica primaria a partire dalla quale verranno in seguito costruiti intellettualmente le stufe e il calore e le imprecazioni e il sé."
Husserl, nella sua indagine sull'essenza dei modi di conoscenza chiama noema l'elemento oggettivo dell'esperienza vissuta (da non confondersi con l'oggetto stesso: la cosa): tale elemento oggettivo viene colto come essenza in un processo di intuizione.

Le conoscenze sono tramissibili molto più facilmente delle esperienze dirette; è di quest'ultime che probabilmente si parla quando si dice che esiste una incomunicabilità di fondo tra le persone; una breccia su questo muro di incomunicabilità può essere aperta grazie all'opera d'arte che parla non il linguaggio della conoscenza ma quello dell'esperienza e delle emozioni ad essa legate. Il bambino, soprattutto nei suoi primi anni di vita, impara dai grandi osservando e facendo sue le loro esperienze ed emozioni e basando su di esse lo sviluppo del linguaggio.

Le esperienze dirette necessitano comunque sempre di una riflessione logico-razionale per poter dare un contributo costruttivo e oggettivo alla percezione della realtà. Voglio dire che l'individuo è immerso in un mondo di esperienze dirette, di percezioni sensibili, sia da sveglio che durante il sonno, su cui poi costruisce, con una riflessione logico-razionale appunto, la sua conoscenza della realtà. Il bambino, in particolare, arriva al principio di realtà emergendo proprio da un mare magnum di percezioni. Se non ci fosse la riflessione logico-razionale come faremmo a distinguere il sogno dalla realtà?

Giuseppe Aschieri
 

Annotazioni sul vissuto esperienziale (di Alberto Cavallo)

Si potrebbe dire moltissimo su questi temi. Secondo la dottrina buddista, ad esempio, alla percezione è sempre associata un'emozione, che può essere positiva, negativa o neutra, e quest'associazione è ben distinta dal momento discriminante, il riconoscere l'oggetto. Il neurologo Antonio Damasio formula, sulla base delle sue ricerche, una considerazione analoga, spingendosi oltre: secondo lui il meccanismo cerebrale che produce l'autocoscienza ha la necessità delle emozioni, l'autocoscienza si fonda anzi sulla percezione interna della reazione dell'intero organismo alla situazione ambientale percepita. Gli studi neurologici stanno mostrando con sempre maggiore evidenza quanto l'esperienza sensoriale sia elaborata prima che acceda alla coscienza.

La credenza nella realtà del percepito è lo stadio ingenuo, non filosofico, che contraddistingue la forma più semplice di conoscenza successiva alla pura reazione emotiva. La teoria platonica a cui accennavamo sopra, enunciata nei libri VI e VII della Repubblica, comprende in tutto quattro gradi della conoscenza: oltre ai due gradi superiori di conoscenza razionale già citati (dianoia e noesis), vi sono i gradi inferiori dell'immaginazione (eikasia) e della credenza (pistis). Per facilitare la comprensione Platone formula il famoso mito della caverna.

Non concordo che la conoscenza richieda riflessione. La conoscenza è semplicemente fissazione dell'esperienza, spesso legata ad un singolo episodio, e non richiede sempre un processo esplicito e conscio. I bambini apprendono in modo rapidissimo grazie al meccanismo, con cui la mente umana generalizza e fissa le esperienze senza necessità di ragionamento. La razionalizzazione segue, come accade ad esempio nell'apprendimento del linguaggio: i bambini conoscono la lingua madre senza conoscerne la grammatica. A scuola poi imparano (si spera, almeno, che imparino) la versione razionalizzata di ciò che già conoscono in forma operativa. Daniel Dennett fornisce una discussione vivace ed interessante di come operano i metodi di razionalizzazione nella mente, mostrando come la versione razionalizzata sia comunque successiva alla fissazione dell'esperienza.

Il "cogito ergo sum" di Cartesio è un bell'esempio di conoscenza intuitiva. Sappiamo che è vero per sola intuizione, non per logica: la forma non deve ingannare, non è una deduzione ma solo un modo di affermare "io so di esistere", perché Cartesio non ne dà dimostrazione, lo tratta esplicitamente come postulato autoevidente. Ma i postulati della matematica sono semplici ipotesi, la cui accettazione non ci vincola ad una visione del mondo. Invece l'accettazione della proposizione di Cartesio serve a fondare un'intera metafisica. Peccato che il cogito sia sbagliato logicamente: non si può coniugare un verbo alla prima persona se non si sa già che la persona in questione esiste. Cartesio avrebbe dovuto dire "ci sono dei pensieri"; da qui avrebbe dovuto argomentare sull'eventuale autore di quei pensieri e così via. Buddha fece lo stesso ed arrivò alla conclusione che l'io non esiste. Infatti ne mostrò il carattere composito, separandone con sottigliezza i diversi aspetti ed arrivando alla conclusione che quello che chiamiamo io (o meglio, , in terza persona) è solo un nome con cui denotiamo un insieme continuamente mutevole di elementi aggregati. L'intuizione unitaria dell'io sarebbe dunque fallace: la pratica meditativa serve tra l'altro a mettere sotto controllo questa folla disordinata che si muove dentro di noi, parte della quale costituisce quello che gli psicologi chiamano inconscio. Cartesio nel suo metodo afferma che le idee vere sono quelle chiare e distinte. Un criterio altamente soggettivo, eppure Cartesio è considerato un razionalista; per qualche ragione il buddismo è considerato mistico, eppure si basa su una logica assai raffinata e propone metodi oggettivi e ripetibili per raggiungere la consapevolezza di ciò che non è trattabile con la sola logica.

Una digressione sui criteri di verità: il Dalai Lama, massima autorità religiosa del Tibet, ha spesso affermato in pubblico che il buddismo è una proposta, che l'uditore può accogliere o no sulla base del proprio senso critico. Con queste affermazioni non fa che ripetere ciò che diceva il Buddha storico, come si riporta nell'Anguttara-Nikaya, uno dei testi canonici del buddhismo antico: "quello che vi dico non dovete accettarlo perché è tradizione, perché lo dicono le scritture, perché il vostro maestro è un asceta <...> ma se vi rendete conto voi stessi che è meritorio e non riprovevole e quando è accolto porterà vantaggio e felicità". Apertura mentale e pragmatismo, dunque.

A proposito della trasmissione delle conoscenze, vorrei far notare che non sono trasmissibili in quanto tali, possiamo soltanto produrre messaggi di vario genere che per l'interlocutore sono esperienze, da cui potrà ricavare a sua volta conoscenze. Le conoscenze formalizzate sono più facilmente trasmissibili, appunto perché formalizzate, quindi riferite ad un veicolo simbolico ben definito, un codice comune: pensiamo al linguaggio di una disciplina scientifica. Ma questa forma di trasmissione presuppone che i due interlocutori abbiano una quantità notevole di conoscenze comuni su cui fondare la comunicazione, come l'aver studiato una certa disciplina scientifica.

La realtà è costruita attraverso una categorizzazione inconscia, non in modo logico-razionale. I bambini imparano progressivamente la persistenza degli oggetti, i concetti del tempo (prima, dopo, ieri, domani) e altre nozioni sul mondo dei fenomeni, senza fare ragionamenti ma attraverso un apprendimento pratico, operativo, che viene tradotto in conoscenza non verbale. La capacità vera e propria di ragionare, secondo gli psicologi, si sviluppa per ultima e si completa soltanto dopo la fine dell'infanzia vera e propria, con l'adolescenza. Del resto gli animali hanno un'ottima conoscenza organizzata della realtà pur senza avere la ragione. Gli esseri umani grazie alla ragione possono raggiungere un livello superiore di conoscenza operativa dei fenomeni, ma non possono fare a meno dei passaggi non razionali: l'assimilazione della conoscenza non è comunque un processo razionale.

L'equivoco di fondo sta nel considerare conoscenza soltanto quella di tipo scientifico. Se mi scotto sulla stufa acquisisco la conoscenza che la stufa scotta, il che vuol dire che da quel momento so che la stufa scotta. Anche il gatto che si scotta sulla stufa acquisisce questa conoscenza e successivamente si tiene alla larga dalla stufa. Come essere umano posso trasmettere questa conoscenza con le parole, racconti, disegni oltre che con gesti, urla. Un altro essere umano acquisirà la conoscenza in modo più incisivo vedendomi scappare urlante piuttosto che sentendomi dire "attento che scotta", tanto più se non capisce la mia lingua; pensiamo poi a come spiegheremmo la cosa ad un bambino piccolo: non ci accontenteremmo certo di dirgli "la stufa scotta" confidando poi che non la tocchi. E tutto questo non ha niente a che vedere con l'affermazione scientifica "la stufa ha una temperatura esterna di 200°C". Il contenuto di "la stufa scotta" è più ricco di conoscenza di "la stufa ha una temperatura esterna di 200°C". Quando ci scottiamo o vediamo bene qualcuno che si è scottato acquisiamo conoscenza delle scottature senza usare un metodo scientifico; viceversa chi non ha la minima nozione di fisica non sa se a 200°C ci si scotta, quindi la frase scientifica non gli trasmette nessuna conoscenza, ma chi ha sufficienti conoscenze fisiche e biologiche può arrivare a capire la necessità di evitare le scottature senza provarle in corpore vili.

Non si distingue il sogno dalla realtà ragionandoci. Anche gli animali sognano e suppongo che distinguano il sogno dalla realtà, lo deduco dall'espressione che hanno i gatti quando li svegli mentre sognano. I bambini ancora privi della ragione si trovano nella condizione degli animali, e non sembrano avere difficoltà, anche se ovviamente non possono spiegarcelo neppure loro. Durante il sogno, comunque, non sappiamo di sognare, crediamo di essere svegli. A posteriori possiamo classificare le nostre esperienze tra reali ed oniriche, ma non lo facciamo tramite ragionamenti espliciti, sappiamo quali sono i sogni e questo ci basta. Sono convinto personalmente di averlo sempre saputo fin da bambino, senza bisogno di ragionarci. Possiamo ragionare su come possiamo riconoscere i sogni, ma il riconoscimento precede il ragionamento.
Presso molti popoli, forse originariamente presso tutti, esiste la credenza che durante i sogni ci si trovi in una realtà alternativa, altrettanto reale del mondo della veglia, semplicemente diversa. Si pensa, ad esempio, che l'anima esca dal corpo ed abbia avventure reali nel mondo degli spiriti. Anche oggi in Italia ci sono milioni di persone che giocano al lotto numeri dedotti dai sogni, e ci sono persone convinte che quando parlano in sogno con un parente morto stanno veramente parlando con l'anima del defunto.

Nota finale: secondo il vedanta induista il mondo fenomenico, la cosiddetta realtà, ha la stessa consistenza dei sogni: l'unica realtà è il Brahman. I buddisti chiamano risveglio l'acquisizione della consapevolezza, tuttavia non si spingono a dire che la realtà è sogno; si limitano a dire che è vuota, nel senso di non permanente. Da bambini impariamo la permanenza delle cose e finiamo per credere che abbiano in sé un'essenza immutabile, con la filosofia possiamo imparare che questa permanenza è nella nostra mente, che le cose finiscono anche perché la loro essenza propria non esiste.
 

Note


(1)  Nota storica
I regni greci succeduti alla conquista di Alessandro Magno nel II secolo a.C. si espansero nell'India settentrionale e la civiltà ellenistico-buddista dominò culturalmente l'Asia centrale (attuali Uzbekistan, Tagikistan, Afghanistan, Pakistan) e parte dell'India per diversi secoli.

(2) "Io non ne conosco il nome, e come appellativo lo dico Tao", Tao Te Ching, XXV.
 
 

Bibliografia

DALAI LAMA, La via del buddhismo tibetano, traduzione di Paola Mazzarelli, Oscar Mondadori, Milano 1996. Un'introduzione accessibile e completa al buddismo, naturalmente visto dalla scuola Ghelupa del Tibet. Lo spirito di tolleranza, apertura e benevolenza tipico dei buddisti autentici fa sì che un testo prodotto da una scuola possa costituire un buon riferimento per il buddismo in generale. E' tratto da una conferenza e comprende anche domande del pubblico e risposte del Dalai Lama, un uomo che non cessa mai di stupirmi perché rappresenta un'istituzione della religione organizzata (anzi, per i fedeli incarna il bodhisattva Avalokitesvara/Cenresig, patrono del Tibet e viene chiamato quindi Kundun, Presenza) eppure testimonia in modo straordinario nella propria persona la dottrina che rappresenta.

LAMPARELLI, CLAUDIO,  Tecniche della meditazione orientale, Oscar Mondadori, Milano 1985. Introduzione sistematica con note storiche a tutte le scuole meditative, classiche e moderne, compreso un accenno a quelle occidentali.

SOLE'-LERIS, AMADEO, La meditazione buddista, traduzione di Maria Angela Falà, Oscar Mondadori, Milano 1988 (originale La meditación budista, Barcelona 1986). Un ottimo testo, molto approfondito.

Tao Te Ching (Il Libro del Tao e della Virtù), a cura di Fausto Tomassini,  TEA, Milano1994. Il testo base e più antico del taoismo filosofico. Molto difficile per la sua sinteticità e, diciamo pure, oscurità per chi non ha qualche base. Consiglio di fermarsi a riflettere per almeno dieci minuti ogni quattro righe. Non scherzo. L'edizione contiene anche la traduzione di due classici commenti cinesi, che a volte aiutano, a volte no.

Zhuang zi (Chuang-tzu), a cura di Liou Kia-Hway, traduzione di Carlo Laurenti e Christine Leverd, Adelphi, Milano 19933. Grandissimo libro del filosofo omonimo, non aspettarsi un testo all'occidentale: contiene molti aneddoti, digressioni, brevi storie.

DAMASIO, ANTONIO, L'errore di Cartesio, traduzione di Filippo Macaluso, Adelphi, Milano 1995. Il neurologo portoghese, preside di neurologia all'Università dello Iowa, presenta un'interessante teoria della coscienza basata sui suoi studi sul cervello umano. L'errore di Cartesio è ovviamente nel cogito: secondo Damasio "io sono dunque penso".

DENNETT, DANIEL, Coscienza, traduzione di Lauro Colasanti, Rizzoli, Milano 1993. Il filosofo cognitivista americano affronta il tema chiave della sua corrente: spiegare come nasce l'autocoscienza basandosi sulle conclusioni dei fisiologi. Ovvia la connessione con Damasio, che lo cita.

SAGAN, CARL, Contact, Bompiani, Milano 1988. L'astronomo e planetologo, impegnato anche professionalmente nella ricerca della vita extraterrestre, scrive un romanzo di fantascienza con profondi risvolti scientifici e filosofici.

DEWEY, JOHN, Una fede comune, La Nuova Italia, Firenze 1959. Saggio su religione e religiosità, breve ed incisivo che l'ha reso giustamente celebre, costituito da tre lezioni tenute da Dewey nel 1934 presso la Yale University di New Haven.

GIVONE, SERGIO, Storia del nulla, Laterza, Bari 1995.

RUSSELL, BERTRAND, Misticismo e logica e altri saggi, Longanesi, Milano 1979.

ARMSTRONG, KAREN, Storia di Dio, Marsilio, Venezia 1995. L'autrice, documentatissima e preparata, ripercorre la storia dell'idea di Dio nei "4000 anni - come dice il sottotitolo - di religioni monoteistiche".

POPPER, KARL R., La società aperta e i suoi nemici, Armando Editore, Roma 1996. Uno dei maggiori contributi sulla democrazia del secolo appena trascorso.
 
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